Di fronte ai 700 delegati riunti a Teheran il 21 febbraio del 2017 per la sesta conferenza internazionale in sostegno dell’intifada, il supremo leader l’ayatollah Ali Khamenei ha nuovamente e chiaramente evidenziato il carattere jihadista dell’offensiva contro Israele.
“Il popolo palestinese non ha nessuna altra opzione se non quella di mantenere alte le fiamme della lotta confidando in Allah l’Eccelso e basandosi sulle loro innate capacità così come hanno fatto autenticamente fino ad oggi. Fin dall’inizio questo tumore canceroso (Israele, n.d.r.) è andato sviluppandosi in diverse fasi per trasformarsi nell’attuale disastro. La cura per questo tumore deve svilupparsi anche essa in fasi”.
Chi non tenesse conto della profonda componente jihadista della guerra musulmana contro Israele, di cui l’Iran rappresenta la maggiore minaccia a livello regionale, mancherebbe di comprendere un aspetto essenziale, determinante e irriducibile del conflitto che ha, oltre allo stato sciita, in Hezbollah e in Hamas le altre sue manifestazioni principali. Fatah gioca di sponda tra le due, essendo meno programmaticamente esplicito nel collocare il conflitto dentro una dimensione religiosa, senza tuttavia rinunciare ad attingere abbondantemente al suo repertorio di radicalismo.
Il vocabolario dell’estremismo contempla divisioni nette, radicali, irriducibili. Per i jihadisti sciiti e sunniti il nemico sionista è assoluto, cosmico, è l’incarnazione stessa del male.
“Il religioso più anziano di Hezbollah, lo Sceicco Husayan Fadlallah”, ha scritto Robert S. Wistrich, “durante gli anni ’90 ha continuamente sottolineato come Israele non fosse solo uno stato ebraico nel senso formale del termine ma l’espressione definitiva della personalità ‘ebraica’, corrotta, traditrice e aggressiva. Gli ebrei erano indubbiamente ‘i nemici dell’intero genere umano’”.
Gli ebrei. Non gli israeliani. Ed è agli ebrei e non agli israeliani che nel 2015, durante un discorso, il “moderato” Abu Mazen fece riferimento quando invocò il “sangue puro” arabo a difesa della Moschea di Al Aqsa che gli ebrei volevano profanare con i loro “piedi sporchi”. La difesa della Moschea dall’aggressione ebraica è un ballon d’essai di grande successo lanciato negli anni ’30 dal Mufti filonazista di Gerusalemme, Amin Al Husseini. Di nuovo è stato utilizzato poche settimane fa relativamente alla decisione di Israele di installare dei metal detectors poi rimossi all’ingresso al Monte del Tempio-Spianata delle Moschee.
Ma non è il negazionista Abu Mazen né sono i volonterosi continuatori dell’antisemitismo eliminazionista hitleriano di Hamas e di Hezbollah, i pericoli maggiori per Israele. E’ L’Iran ad esserlo. Il principale finanziatore ed esportatore del terrorismo islamico a livello mondiale, ben più organizzato, strutturato e economicamente rigoglioso (grazie all’amministrazione Obama) di quanto lo sia il califfato nero dell’IS o ISIS.
Ed è Matthias Küntzel, uno dei maggiori studiosi di jihadismo a livello internazionale, a sottolineare la natura del regime sciita:
“Fin dal 1979 l’Iran ha propagato una guerra religiosa globale contro il ‘mondo dell’arroganza’ il che significa una guerra contro coloro i quali sono sufficientemente ‘arroganti’ da farsi le proprie leggi invece di inchinarsi alla sharia di Allah. All’inizio degli anni Ottanta, l’Ayatollah Khomeini scoprì il culto del martirio e dei suicidi esplosivi come strumenti per la guerriglia islamica. Questa tecnica è unicamente basata sulla religione e la promessa del paradiso eterno per coloro che perpetrano omicidi di massa. ‘E’ necessario mantenere vivo il culto del martirio’, ha detto Alì Khamenei, il Supremo Leader dell’Iran nel marzo 2015 durante i negoziati sul nucleare. ‘Questo è uno dei principali bisogni del paese. La cultura del martirio è una cultura dell’autosacrificio per il bene di obiettivi a lungo termine’. Questi obiettivi sono, ovviamente, obiettivi religiosi. Khamenei è convinto di ottemperare a una missione religiosa. E’ il motivo per il quale la politica estera iraniana non è mai orientata allo status-quo ma è millenarista e rivoluzionaria, con la distruzione di Israele in cima alle sue priorità”.
Questa consapevolezza sulla natura della politica estera iraniana è da tempo fatta propria da Benjamin Netanyahu, ribadita recentemente in una intervista durante la sua visita negli Stati Uniti e al centro del suo discorso al Congresso americano nel marzo del 2015 nel tentativo di ostacolare l’accordo sul nucleare con l’Iran fortissimamente voluto da Obama.
La salvaguardia dell’identità palestinese ha sottolineato Khamanei nel suo discorso, in presenza del presidente iraniano Hassan Rouhani, è “una necessità e una santa jihad”.
L’antisemitismo in chiave islamica è uno degli aspetti essenziali dell’odio per Israele che informa una nuova versione della soluzione finale: la distruzione di Israele con, idealmente, tutti gli ebrei concentrati nella sua area geografica. Le parole di Hassan Nasrallah, segretario di Hezbollah, propaggine libanese dell’Iran, apparse sul Daily Star di Beirut nell’ottobre del 2002 sono eloquenti, “Se gli ebrei si radunassero in Israele, ci risparmierebbero la fatica di cercarli in giro per il mondo”.
Affermazione perfettamente allineata con la volontà eliminazionista hitleriana, la quale aveva come obbiettivo la distruzione degli ebrei in quanto ebrei, fino all’ultimo di essi.