Jo Fredriks è un’animalista convinta e una pittrice. In una mostra d’arte tenutasi lo scorso settembre a Gold Coast in Australia, ha pensato bene di usare il suo magnifico quadro per denunciare l’abbattimento giornaliero eseguito in tutto il mondo di milioni di animali. Nel dipinto sono raffigurate delle pecore ammassate in fila che si dirigono al campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau con tanto di bandiera nazista sopra al cancello.
Evidentemente la Fredriks ha maldigerito la sua adolescenza trascorsa nella fattoria di famiglia aiutando il padre a lavorare gli animali da macello, una sofferenza che non l’ha dispensata dalle critiche per il nome scelto alla sua opera d’arte: “L’olocausto degli animali”.
A coloro che l’hanno attaccata aspramente, la Fredriks risponde che la parola “olocausto” non appartiene agli ebrei e che non poteva esistere parola migliore per definire il suo sforzo creativo.
Dvir Abramovich, Presidente della commissione contro le diffamazioni dell’associazione ebraica B’nai B’rith, ha definito il titolo inqualificabile affermando che “La Shoah non è uno strumento di marketing e non deve essere mai utilizzato come una metafora per promuovere iniziative perché si rischia di degradare ed umiliare la sofferenza di tutti coloro che furono vittime del più buio capitolo della storia dell’umanità”.