La territorialità
È l’elemento più immediato, per creare uno Stato servono dei confini riconosciuti e condivisi. Attualmente il territorio palestinese comprende due zone divise: parte del West Bank e la Striscia di Gaza.
Il primo, conosciuto anche come Cisgiordania (non è mai esistito storicamente uno Stato o un territorio propriamente palestinese) si trova ad est di Israele ed è spartito secondo gli Accordi di Oslo del 1993, firmati dall’allora Presidente dell’OLP Yasser Arafat e dal Primo Ministro israeliano Shimon Peres. La Zona A comprende la fetta di territorio gestita dalle autorità palestinesi; la Zona B è affidata al controllo civile palestinese e ad Israele in tema di sicurezza; la Zona C è a pieno controllo israeliano, ma senza potere sui civili palestinesi. La divisione era considerata provvisoria, in attesa che le due parti arrivassero ad un accordo definitivo tramite i negoziati di pace. Questi restano quindi territori contesi, anche se vengono erroneamente chiamati territori “occupati”.
La Striscia di Gaza si estende a sud-ovest di Israele ed è sotto il pieno controllo palestinese dall’agosto del 2005, quando l’allora Primo Ministro israeliano Ariel Sharon ordinò il ritiro completo da Gaza e da altri quattro insediamenti del West Bank. Il piano di disimpegno, conosciuto come Israel’s unilateral disengagement plan, è avvenuto unilateralmente, cioè senza negoziare nulla in cambio con le autorità palestinesi ed ha costretto migliaia di cittadini israeliani ad abbandonare le proprie case, il lavoro, i campi coltivati, le scuole e le sinagoghe: tutto ciò che era stato costruito con le loro mani e con il sudore della loro fronte. Si può affermare che tutto ciò che è avvenuto dopo il ritiro di Israele da Gaza, contraddice le campagne palestinesi che sostengono che la violenza contro gli israeliani sia l’unica strada per liberarsi dall’”occupazione” dello Stato ebraico. Se il terrorismo fosse la semplice reazione all’occupazione di una terra, e se ciò a cui aspirano i palestinesi è uno Stato, non si spiegherebbe come mai la Striscia di Gaza sia diventata immediatamente dopo il 2005 la base operativa del terrorismo palestinese di Hamas. Ottenuta la sovranità sul territorio, a rigor di logica i palestinesi avrebbero dovuto investire sulla costruzione di infrastrutture cittadine e sulla creazione di uno Stato, mentre da quel momento è iniziato l’incubo dei cittadini del sud di Israele. I terroristi della Striscia hanno investito tutti i finanziamenti esteri (Usa, Europa, Russia, Paesi arabi) in armi e addestramenti per condurre la loro jihad, la guerra santa. Dal 2006 sono stati migliaia i razzi sparati da Gaza contro i civili israeliani, come anche le infiltrazioni terroristiche, i rapimenti e gli attentati al confine.
Le garanzie per la popolazione palestinese
È proprio dal lontano 2006 che la Striscia di Gaza è governata da Hamas e il West Bank palestinese è guidato dal Presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese Mahmoud Abbas (nome di battaglia Abu Mazen).
Questo significa che alla popolazione palestinese viene negato il diritto di votare i propri rappresentanti politici da nove lunghi anni. Tanto Ismail Hanyeh quanto Abbas non sono in realtà legittimati a governare e la situazione degli abitanti palestinesi è disastrosa da entrambe le parti.
Sul fronte sud-occidentale, Hamas ha preso il controllo del governo nel 2006 attraverso delle elezioni di dubbia validità. Nel suo lungo curriculum vi è l’iscrizione da parte del mondo occidentale, alla lista delle organizzazioni terroristiche. Hamas controlla tutto ciò che avviene nella Striscia. Dall’import – export, alle attività finanziarie, dalle imprese di costruzione alla vita quotidiana dei cittadini. Non si muove foglia che Hamas non voglia. Come anticipato, il governo di Gaza non si è fatto carico delle strutture di cui ogni popolazione ha bisogno; dalle scuole agli ospedali, ai parchi, agli uffici, nella maggior parte dei casi le strutture sono messe in piedi dalle ONG. Con i miliardi di dollari di finanziamenti internazionali ricevuti in otto anni, Gaza sarebbe potuta diventare la Miami palestinese, se non fosse che il governo terroristico e illegittimo divide il denaro fra la classe dirigente di Hamas e le armi da scagliare contro Israele. Mentre una buona fetta della popolazione palestinese arranca fra mille difficoltà economiche e sociali, i vertici dell’organizzazione governante vivono in splendide regge, nel lusso più sfrenato, come da buona tradizione tramandata dal vecchio Yasser Arafat, la cui famiglia può usufruire ancora del tesoretto (decine di milioni di dollari) rubato di sana pianta ai civili palestinesi soggiogati dal potere. Per condurre operazioni terroristiche continue e incessanti per otto anni, servono soldi. Molti soldi. Ecco quindi dove è andata a finire l’altra metà dei miliardi di dollari posseduti da Hamas. Migliaia di razzi, mitra, bombe, materiale per la costruzione di tunnel che attraversano tutta la Striscia e che costituiscono una vera e propria città sotterranea.
A tutto ciò c’è da aggiungere che i diritti dei palestinesi sono continuamente calpestati e le libertà individuali non sono altro che concessioni o negazioni del governo di Ismail Hanyeh. Per fornire soltanto due rapidi esempi, l’omosessualità non è accettata in nessun modo a Gaza e il rischio è quello di essere ammazzati senza troppi indugi. La comunità LGTB è completamente assente nella Striscia e l’unico modo per sopravvivere è quello di reprimere la propria identità di genere se non addirittura sposarsi con una persona di sesso opposto per fingere l’eterosessualità. Un altro segnale dell’assenza di diritti fondamentali, sono le esecuzioni contro i presunti collaboratori di Israele: senza nessuna garanzia fornita dai processi e dal corso che dovrebbe fare la giustizia, con Hamas basta un piccolo elemento che possa far pensare ad una collaborazione con lo Stato ebraico o anche una chiacchiera di strada, per mettere a morte decine e decine di palestinesi con l’impiccagione.
Nel West Bank ci pensa il governo corrotto a privare la popolazione di miliardi di dollari, tanto che di recente, proprio in seno all’Unione Europea, si è cercato di capire dove andassero a finire i finanziamenti giunti all’Autorità Nazionale Palestinese direttamente dalle nostre tasche. Anche lì, il dislivello tra il tenore di vita del cittadino palestinese medio e la classe dirigente vede un gap insormontabile. In più, l’ANP – che dovrebbe rappresentare l’interlocutore moderato della popolazione palestinese – finanzia il terrorismo con veri e propri stipendi proporzionati alla gravità della violenza inflitta ai civili israeliani. I terroristi detenuti nelle carceri israeliane ricevono tanti più soldi ogni mese, quanto grande è la pena inflitta per gli attentati effettuati in Israele e nel West Bank. In caso di morte dei terroristi, sono le famiglie di questi a beneficiare del bonus governativi. In questo modo, a rimetterci sono i palestinesi onesti, quelli che non hanno altro interesse se non quello di vivere una vita pacifica nella serenità del quotidiano.
Il terrorismo
Un alto punto degli Accordi di Oslo prevedeva il reciproco riconoscimento da parte dello Stato di Israele e dell’Autorità Nazionale Palestinese, oltre alla garanzia di questa di abbandonare la via del terrorismo contro gli israeliani. Ciò non è avvenuto in questi anni da parte di Hamas e, ancor più grave, neanche da parte di Mahmoud Abbas. Decine di attentati sono stati rivendicati dalle Brigate dei Martiri di Al Aqsa, le forze armate di Al Fatah (il partito di Abu Mazen) e l’incitamento alla violenza da parte delle autorità del West Bank sono all’ordine del giorno. Sembra incredibile come i terroristi uccisi durante gli attentati o durante le catture da parte dell’esercito israeliano, siano chiamati dallo stesso Abbas “martiri”, come vuole la tradizione jihadista. Quando furono rilasciati dalle carceri israeliane centinaia di terroristi in cambio del soldato israeliano rapito, Ghilad Shalit, il Presidente dell’ANP fece festa per le strade di Ramallah e li accolse con tutti gli onori, appellandoli come eroi e liberatori del popolo palestinese. Ancora oggi, nelle sedi dell’Autorità Palestinese e nei documenti diffusi, la geografia della zona è rappresentata utopicamente escludendo lo Stato d’Israele da qualsiasi territorio possibile, il ché dimostra – se ce ne fosse ancora bisogno – la volontà di spazzare via gli ebrei dal Medio Oriente e che la volontà di fondare lo Stato palestinese è soltanto un bluff. Se ciò non fosse vero, i leader palestinesi che si sono succeduti negli ultimi settanta anni avrebbero colto le innumerevoli occasioni che hanno avuto nel corso della storia. È infatti dal 1947 – cioè da prima della fondazione dello Stato d’Israele – che i palestinesi rifiutano ogni tipo di proposta dell’Onu, della Comunità internazionale e dello Stato ebraico, che li avrebbe portati a costituire uno Stato di Palestina.
Per tutte le situazioni e le ragioni esplicate, non vi sono i presupposti per riconoscere uno Stato di Palestina in queste condizioni. Un auspicato Stato palestinese non può che passare attraverso il tavolo dei negoziati con Israele e con un mediatore credibile. In primis per il bene della popolazione palestinese, che merita di più di questi governi illegittimi e corrotti; poi – e non meno importante – per la popolazione israeliana tartassata dagli attentati terroristici sugli autobus, per le strade, nelle macchine e nelle sinagoghe. Per gli abitanti di Ashkelon, Sderot, Beer Sheva, Ashdod, che vivono con il continuo incubo di poter morire sotto i razzi, svegliati nella notte e interrotti nelle attività quotidiane dalle sirene del sistema di difesa israeliano, senza del quale il numero delle vittime sarebbe stato catastrofico. In più, riconoscere dal nulla lo Stato di Palestina, per l’Unione Europea vorrebbe dire rinnegare la validità e la credibilità di Oslo II, cioè di quei negoziati fra israeliani e palestinesi di cui si fece garante nel 1995 insieme a Egitto, Giordania, Russia, Norvegia e Stati Uniti d’America. Un gesto che creerebbe peggiore instabilità e minori garanzie per entrambi i popoli.