Terrorismo palestinese in Israele. Chi scrive di Israele si trova spesso in un dilemma: bisogna raccontare i tentativi terroristici che sono frequenti e quasi sempre frustrati dalla vigilanza delle forze dell’ordine e dell’esercito, oppure è meglio non cadere nel trabocchetto dei terroristi, che cercano innanzitutto di accedere ai media e basarsi sull’esperienza – del tutto reale – di grande sicurezza che il visitatore prova visitando le città, la natura, i luoghi storici dello stato ebraico? Israele è davvero un paese sicuro, è molto più problematico muoversi in certi quartieri delle città italiana che in una israeliana, nessuno si sognerebbe da noi di frequentare i parchi dopo il buio, quando a Tel Aviv o a Gerusalemme è comunissimo andare a fare sport o a passeggiare anche in tarda serata. La sicurezza del resto è avvertita non solo dagli israeliani, ma anche dai turisti, il cui numero batte tutti i record, mese dopo mese.
E però qualche giorno fa il direttore del servizio di sicurezza interno israeliano, il famoso Shin Bet (che corrisponde solo a una sigla come S2) è andato a una commissione perlamentare per fare il suo rapporto sullo stato del terrorismo e fra le altre cose ha detto che il suo servizio ha neutralizzato nell’ultimo anno 480 attentati terroristici, oltre a 590 attacchi isolati e ha catturato oltre 200 cellule terroristiche. Sono cifre raccapriccianti. Vogliono dire che ogni giorno che passa, se non ci fosse la vigilanza dei servizi, ci sarebbero tre attacchi sanguinosi. Vogliono dire anche che migliaia di persone, fra arabi israeliani, sudditi dell’autorità palestinese, abitanti di Gaza, sono coinvolte in attività terroristiche. Infine significano che la calma che noi percepiamo e difendiamo è il frutto di un’attività ininterrotta, una lavoro continuo dei servizi di sicurezza. Come del resto il fatto che gli attacchi terroristi compiuti, che non compaiono in questo conto e comunque sono in media almeno uno o due la settimana senza contare gli attacchi da Gaza coi palloni molotov o direttamente con gli assalti al confine che ormai sono spesso compiuti con armi da fuoco e bombe a mano, sono bloccati per lo più dall’esercito o da civili armati.
Se si fanno i conti, probabilmente il numero degli attacchi non è inferiore a quello delle ondate terroriste dette “intifade”. Semplicemente la barriera di separazione, la professionalità dei servizi che oltre a informazioni, intercettazioni, sorveglianza web usa anche algoritmi di intelligenza artificiale, rende molto difficile usare le armi più efficaci e più tracciabili come le cinture esplosive, i mitra e e le bombe nei locali pubblici e neutralizza anche i mezzi più facili e disponibili a tutti come i coltelli e le automobili usate contro i passanti.
Vale la pena di ricordare che l’attività dei servizi israeliani si estende anche all’estero: si è detto che i recenti attentati iraniani sventati in Francia, Germania e Danimarca si siano potuti evitare grazie a informazioni fornite dal Mossad, l’altro servizio israeliano, quello esterno.
Insomma, il territorio israeliano è oggetto di una ininterrotta aggressione terroristica, che tende a estendersi anche al territorio europeo. Bisogna chiedersi il perché di questa guerra di attentati, che non ha logica politica né strategica. E’ dimostrato ormai da decenni che il terrorismo non riesce a danneggiare seriamente il funzionamento economico e politico dello di Israele né a spaventare la popolazione e perfino i turisti. Dunque non è efficace al livello concreto e materiale. Ma è fortemente praticato, anche perché continuamente incoraggiato da Hamas e dall’Autorità Paletinese, oltre che da Iran e dai suoi mercenari. I terroristi in carcere sono pagati, se muoiono lo sono le loro famiglie, essi ricevono onori, gli si dedicano strade e scuole, sono protagonisti in televisione e nelle scuole.
La domanda è perché. E la risposta è orribilmente semplice: per evitare la pace. Per impedire l’integrazione. Per creare una barriera di odio fra arabi ed ebrei. Un terrorista cerca di uccidere degli ebrei, qualche volta ci riesce, spesso viene ucciso per fermarlo. Riceve comunque delle condanne e anche le famiglie, di solito complici sono sanzionate dalla giustizia israeliana. Ci sono lutti, danni, memorie atroci. E’ un’industria del dolore inflitto, gestita con totale cinismo dall’autorità palestinese. Che potrebbe impedire gli attentati, scoraggiandoli sistematicamente, e in questo caso l’atmosfera sul terreno si rasserenerebbe immediatamente, la vita diventerebbe più facile per tutti; ma al contrario le organizzazioni palestiniste li incoraggiano in tutti i modi. E lo fanno perché il loro senso è questo: non la costruzione di uno stato che cerchi di far vivere meglio possibile i suoi abitanti ma l’odio, la guerra, l’impossibilità di convivere, l’impossibile rivincita contro gli ebrei, la vendetta che prolunga il lutto. La prossima volta che qualcuno sentite qualcuno chiedere perché non c’è la pace in Medio Oriente, pensateci.