Diciamoci la verità: in Italia ci sono pochissime persone in grado di distinguere i movimenti politico-religiosi presenti in Medioriente ad oggi. Non si tratta di mera ignoranza, ma di oggettiva difficoltà a distinguere l’una dall’altra le infinite teste dell’islamismo. La situazione è ancora più complessa quando cerchiamo di addentrarci nell’identificazione dei partiti che governano i cittadini arabi di Gaza e quelli di Giudea e Samaria (conosciuti anche come Cisgiordania o West Bank). Ai continui attriti, questi movimenti alternano una certa comunione d’intenti quando si tratta di recare danno a Israele.
Fatah è il partito maggioritario nelle enclavi palestinesi nella West Bank e Abu Mazen, suo capo storico dopo Yasser Arafat, viene ormai considerato un interlocutore moderato o, in alternativa, un angelo della pace, da parte dei governi europei.
In fondo sembra non esserci alternativa. Ci dicono che senza Fatah avremmo solo Hamas o, peggio, qualche tentacolo dell’ISIS. Ma Fatah è davvero in grado di garantire, o anche solo di volere, la pace con Israele?
La storia di Fatah inizia più di cinquanta anni fa, nel 1959, quando un gruppo di uomini arabi fuggiti durante la Guerra del 1948 decise di fondare un’organizzazione che si battesse per i diritti degli arabi palestinesi, da oltre dieci anni sparsi nei campi profughi dei paesi confinanti con Israele.
Invece di rivolgersi alle élite dei paesi arabi, che avevano promesso una veloce integrazione degli arabi palestinesi anche grazie alla sostanziale identità etnico-culturale fra arabi di Palestina, egiziani, libanesi, siriani e giordani, Fatah iniziò a dedicarsi anima e corpo alla lotta armata contro Israele. Nel 1967, entrò a far parte del PLO ottenendo quasi un terzo dei seggi nel Comitato Esecutivo.
Citare i numerosi attentati e omicidi, aventi sempre ad oggetto ebrei israeliani, portati a termine da Fatah e dai suoi membri, non è un esercizio difficile. Dagli anni’60, passando per la Guerra dei Sei Giorni e per le stragi di Settembre Nero (in quella di Fiumicino persero la vita 32 persone, fra cui 6 italiani), fino ad oggi, le mani di Fatah grondano sangue di innocenti. Dopo la rinuncia (un mero espediente di facciata) a compiere attentai contro i cittadini israeliani, avvenuta nel 1988, Fatah ha agito per mezzo di propaggini armate finanziate direttamente da Arafat. Fra queste possiamo citare la Brigata dei Martiri di al-Aqsa, divenuta ufficialmente parte di Fatah nel 2003 e responsabile di numerosi attentati suicida (come quello della stazione centrale di Tel Aviv) in cui hanno perso la vita decine di persone.
È tuttavia opinione comune, diffusa anche dai media mainstream, che ormai Fatah si sia staccata completamente dal substrato terrorista in cui affonda le radici. Ed è un’opinione profondamente sbagliata.
Quando si affrontano argomenti del genere, è sempre bene avere le fonti a portata di mano. In questo caso, la più autorevole è l’ultima versione dello Statuto di Fatah, aggiornato dopo la Sesta Conferenza Generale di Fatah tenutasi a Betlemme il 4 Agosto 2009.
Non bisogna andare oltre la prima pagina per trovare questa affermazione:
“You must know that our enemy is strong and the battle is ferocious and long. You must know that determination, patience, secrecy, confidentiality, adherence to the principles and goals of the revolution, keep us from stumbling and shorten the path to liberation. Go forward to revolution. Long live Palestine, free and Arab.“
Israele è identificato come il nemico e la Palestina per cui Fatah si batte dev’essere completamente Araba. Sorgono quindi le prime differenze fra lo Stato di Israele e, chiamiamolo così, un eventuale Stato Arabo di Palestina. Nel primo c’è spazio per ebrei, cristiani e musulmani, nel secondo solo per questi ultimi. Non vengono recepite neanche le istanze israeliane (e ONU) per la creazione di due stati. Per Fatah c’è posto per un solo stato in Palestina, quello Arabo, mentre gli ebrei sono pregati di accomodarsi fuori dal luogo che hanno reso florido e vivibile dopo secoli di immobilismo ottomano. Possibilmente in fondo al Mediterraneo.
Il problema maggiore è che Fatah, pur essendo nata per tutelare gli interessi degli arabi di Palestina, dal punto di vista fattuale non ha mai lavorato in linea con questo obiettivo. Uno dei motivi è che, a un viscerale odio per gli ebrei, Fatah ha sempre accostato un profondo amore per il denaro.
Abituati alle chiacchiere dei complottisti sulla finanza ebraica, molti si sono persi le cifre e i fatti relativi al massiccio e continuo flusso di moneta riversato nelle casse della PLO, della PA e, soprattutto, di Fatah, da parte di istituzioni internazionali, stati europei e paesi musulmani.
Sappiamo infatti che la PA ha ricevuto, nel decennio 1993-2003, circa 5 miliardi di dollari. La World Bank ha calcolato che le donazioni complessive agli arabi di Palestina ammontano a circa 1 miliardo di dollari l’anno, ossia $ 310 l’anno a ciascun palestinese. Si tratta di una cifra esorbitante, la più alta mai registrata nella storia dell’assistenza estera nei confronti di un singolo paese. Per meglio comprenderne la portata, basti pensare che il Piano Marshall prevedeva solo $ 68 a persona l’anno per ciascun europeo. E in quest’ultimo caso si trattava di ricostruire un intero continente dopo la Seconda Guerra Mondiale.
Restringendo la questione a Fatah, il partito è ancora alla ricerca della montagna di denaro trafugata da Arafat, il cui patrimonio personale era stato stimato in 1.3 miliardi dollari poco prima della sua morte.
Qualora non fossero sufficienti le tonnellate di statistiche ufficiali sulle somme sottratte da Arafat, dal suo entourage e dai suoi successori, abbiamo anche testimonianze dirette di questi comportamenti. L’ex-capo di Fatah nella Striscia di Gaza e della Preventive Security Force, Mohammed Dahlan, non è certo noto per il suo amore verso Israele. Nella prima metà degli anni ottanta è entrato e uscito dalle prigioni israeliane undici volte, eppure uno degli obiettivi principali delle sue invettive è sempre stato Arafat.
In un’intervista del 2004, rilasciata al quotidiano del Kuwait Al Watan, Dahlan ha dichiarato:
“Arafat siede sui cadaveri e sulla distruzione dei Palestinesi proprio nel momento in cui avrebbero un bisogno disperato di cambiare mentalità […] Tutti i fondi donati dagli stati esteri all’Autorità Palestinese, pari a 5 miliardi di dollari, sono spariti, e non abbiamo idea di dove siano finiti.”
La cifra dei 5 miliardi (parliamo sempre del decennio 1993-2003) è dunque confermata. E nel corso del decennio successivo gli aiuti sono raddoppiati.
Appena un anno fa, al Congresso degli Stati Uniti è stato presentato un documento, U.S. Foreign Aid to the Palestinians, che dettaglia i quasi 8 miliardi e mezzo di dollari giunti nelle casse della PA nel periodo 2007-2014 (vedi tabella qui sotto). Oltre ai finanziamenti provenienti dagli Stati Uniti e dalla Lega Araba, bisogna sottolineare soprattutto i 3 miliardi e mezzo regalati a cuor leggero dall’Unione Europea.
Per dare un contesto alle cifre di cui stiamo parlando, è necessario comparare gli aiuti ricevuti dai “Territori Palestinesi” con quelli di altri paesi che devono fronteggiare delle difficoltà sociali, economiche e mediche infinitamente superiori. L’ODA (Official Development Assistance) per ciascun palestinese è pari a 620$ l’anno, ovvero sei volte in più di quello che riceve cittadino del Rwanda (92$), otto volte ciò che riceve un cittadino dello Zambia (79$) e ben dieci volte in più rispetto a ciò che riceve un cittadino dello Zimbabwe (57$).
Perché Fatah, che di fatto gestisce la massima parte di questi fondi, non li ha utilizzati per costruire scuole, ospedali, strade e tutte quelle migliorie infrastrutturali e sociali che permetterebbero un enorme miglioramento delle condizioni di vita degli arabi di Palestina?
La risposta è molto semplice: Fatah non ha mai avuto, né avrà mai, alcun interesse ad aiutare i propri cittadini.
Avere degli elettori soddisfatti, un sistema pienamente democratico e uno stato istituzionalmente efficiente toglierebbe potere e soldi a Fatah. Gli aiuti internazionali cesserebbero (invece di aumentare progressivamente), si formerebbero altri partiti forti, e magari verrebbe a mancare anche il controllo sulla formazione dei giovani palestinesi, imbevuti di odio verso Israele fin dalla più tenera età.
La citazione di un sistema democratico non è affatto casuale. Terrorizzata da una possibile sconfitta elettorale e dalla conseguente perdita dei benefici economici, Fatah impedisce lo svolgimento di regolari elezioni presidenziali da quasi sette anni. Il mandato di Abu Mazen è infatti scaduto nel gennaio 2009, e da allora egli si è limitato a prorogare di anno in anno la sua carica. Questo mostra, fra l’altro, una certa continuità del regime dittatoriale costruito da Arafat, in carica dal 1996 al 2004 (in realtà è stato a capo della PLO fin dal 1969!) e mantenuto da Abu Mazen, capace di “regnare” ininterrottamente nel decennio successivo. In pratica, due soli leader negli ultimi quarantacinque anni.
Come si può pensare di trovare un interlocutore valido in una simile organizzazione, che in cinquant’anni si è espressa solo attraverso violenze e menzogne di cui hanno fatto le spese anche gli stessi palestinesi?