Addio a Sylva Sabbadini, una delle pochissime persone che riuscì a tornare dall’inferno di Auschwitz. Deportata all’età di 13 anni, Sylva non raccontò nulla per decenni della tragica esperienza nel lager.
Troppo dolore, troppi brutti ricordi, che svelò solo in un’intervista nel 2008.
Sylva Sabbadini raccontò di esser stata espulsa da una scuola di Padova, dove viveva con la famiglia, in seguito alla promulgazione della leggi razziali nel 1938. Suo paese era un funzionario del ministero dell’Agricoltura prima di esser allontanato perché ebreo.
Sylva e la sua famiglia riuscirono a scappare grazie all’avvertimento del questore di Padova, che le esortò ad andare via prima che fosse troppo tardi.
Così la famiglia Sabbadini si rifugiò in campagna ospite di una famiglia di contadini. In seguito aprì una gelateria, cercando di tirare avanti. La nuova vita, però, duro poco perché qualcuno tradì e Sylva, i suoi genitori e la nonna furono portati prima in una villa a Vo’ Euganeo e subito dopo a Trieste:
“Ci hanno rinchiusi nella Risiera di San Sabba, un vero e proprio lager. Con noi c’era anche uno zio, mentre mia nonna l’avevano risparmiata perché aveva più di 60 anni. Ricordo i rumori e le grida e poi il viaggio verso Auschwitz in quei carri bestiame. Ancora oggi non riesco a fermare lo sguardo su un treno merci”.
Sylva svelò un particolare:
“Quando arrivai ad Auschwitz avevo tredici anni e mezzo e mi salvai dalla camera a gas perché ero già formata, sembravo una donna adulta, quindi potevo lavorare. Una ragazza della mia età, alta e secca, che viaggiava con me, venne spedita subito a morire. Rimasi sempre con mia madre, lei parlava lo yiddish, la lingua della sua famiglia, e quindi capiva bene anche il tedesco, aspetto molto importante per sopravvivere. Un pomeriggio arrivò nella nostra baracca il dottor Mengele e mi scelse insieme ad altre due ragazze per delle sperimentazioni mediche. Ci trasferirono nell’infermeria. Eravamo sedute e aspettavamo di essere chiamate, intuendo quello che ci aspettava. Uscì l’infermiera e prese una di noi tre, una ragazza dell’est”.
Poi nel gennaio 1945 arrivò la liberazione:
“Sentivamo il rumore dei cannoni molto vicino. I tedeschi a quel punto in preda al panico ci obbligarono a fuggire con loro in quella conosciuta poi come la marcia della morte. Mia madre mi guardò fissa e mi chiese che cosa dovevamo fare e io le risposi che morire per morire preferivo rimanere lì con lei in infermeria. Eravamo abbandonati a noi stessi, senza forze, quando una mattina sono comparsi dei soldati, parlavano russo e giravano nelle camerate guardandoci sbalorditi, sembravano dei marziani. Se avessero ritardato di quindici giorni saremmo morti tutti”.
Sylva Sabbadini trovò il coraggio di raccontare le atrocità subite. Coraggio che è stato salutato nella mattinata di oggi da diverse persone presenti al suo funerale.