Secondo il Soufan Group, un’agenzia statunitense che fornisce servizi di intelligence e sicurezza a governi e istituzioni internazionali, il numero di foreign fighters in Siria e Iraq sarebbe raddoppiato nell’ultimo anno arrivando a toccare almeno le 27 mila unità. Il fenomeno, che ha ormai raggiunto dimensioni globali, sembra indicare che gli sforzi compiuti dai governi di tutto il mondo per arrestare il flusso di combattenti affascinati dallo Stato Islamico hanno avuto pochissimo impatto.
Si stima che il numero di persone andate a combattere in Siria e Iraq sia compreso fra 27 mila e 31 mila, provenienti da almeno 86 paesi diversi. Lo scorso anno il Soufan Group riportava in un simile studio che i foreign fighters erano circa 12 mila. I paesi del Medio Oriente e del Nord Africa sono quelli che “producono” il numero più elevato di combattenti, circa 8 mila per entrambe le regioni. Altri 5 mila provengono dall’Europa, più o meno la stessa quantità delle ex repubbliche sovietiche.
La questione più problematica per il Soufan Group è il fatto che molti di questi foreign fighters (in percentuale il 20%) tendono a cercare di tornare nei propri paesi d’origine creando in questo modo una situazione difficile per la sicurezza interna. L’ISIS infatti guarda con favore alla possibilità di avere agenti infiltrati all’estero in grado di portare a termine attacchi a sorpresa.
Nonostante subito dopo gli attentati di Parigi del 13 Novembre si sia aperto un’importante dibattito sulla possibilità di criminalizzare i viaggi in Siria sembra che questo non abbia fermato gli ambiziosi piani dello Stato Islamico di colpire l’Occidente: secondo l’agenzia infatti lo Stato Islamico si è adattato immediatamente alla risposta occidentale e ha cambiato il profilo delle persone da reclutare. Grazie alla sua grande capacità nell’utilizzo dei social media il Califfato di Siria e Iraq riesce a raggiungere i propri seguaci senza che questi debbano necessariamente viaggiare verso il Medio Oriente. Il fattore umano non è stato però accantonato, ancora oggi nel reclutamento lo Stato Islamico si affida moltissimo a “gruppi di amici” e vicini di casa in grado di persuadere la persona ad unirsi alla causa jihadista. Il Soufian Group ha concluso la sua analisi specificando che sebbene lo Stato Islamico sia destinato a fallire è comunque in grado di influenzare le decisioni dei suoi adepti e questo pericolo crescerà mano mano che il gruppo capirà di essere arrivato al capolinea”.
Nel frattempo in Israele 5 arabi-israeliani di Nazareth sono stati arrestati perché sospettati di intrattenere rapporti con lo Stato Islamico e di pianificare attentati terroristici. La cellula, composta da membri della stessa famiglia, è stata sgominata in un’operazione congiunta fra lo Shin Bet, il servizio di intelligence interno dello Stato ebraico, e la polizia. I cinque uomini hanno un’età compresa fra i 18 e 27 anni e avevano l’abitudine di incontrarsi segretamente per addestrarsi all’uso di armi da fuoco ed esprimere il loro supporto al Califfato di Siria e Iraq. Alcune armi da fuoco sono state rinvenute sul luogo dell’arresto e confiscate dalla polizia. Si tratta del settimo arresto in Israele per crimini legati allo Stato Islamico con un ottava persona riuscita a fuggire verso il confine con la Siria. Secondo lo Shin Bet ci sarebbero almeno 40 arabi-israeliani fra le fila dell’esercito di al-Baghdadi in Siria.
L‘incontro della scorsa settimana fra i vertici di Hamas e il comandante dello Stato Islamico nel Sinai, Shadi al-Menei, ha portato i suoi frutti: tre noti sostenitori del Califfato, arrestati nella Striscia di Gaza per aver fatto propaganda in favore del gruppo terroristico, sono stati rilasciati da Hamas nelle ore seguenti all’incontro. Si tratta dell’ennesimo atto contraddittorio da parte di Hamas che a parole sembra opporsi al movimento jihadista mentre nei fatti sta offrendo la propria assistenza allo Stato Islamico nel Sinai curando i loro feriti e collaborando nel traffico illecito di armi.