Parole, preghiera e maldicenza. Grande protagonista dei giorni solenni che vanno da Rosh Ha Shanà a Kippur è la parola. Mentre la mente e lo spirito sono impegnati a riflettere per fare un esame di coscienza e analizzare le azioni fatte o non fatte nel corso dell’ultimo anno, la bocca – il tramite attraverso cui passano le parole – è impegnata nel recitare le preghiere e il viddui (la confessione delle colpe commesse). In ebraico bocca si dice PE, una delle lettere dell’alfabeto ebraico che ha due forme: una chiusa פ e una aperta ף (che si usa in fine di parola).
Che la parola sia l’elemento che caratterizza l’uomo e lo differenzia dagli altri esseri, è messo in evidenza dal commentatore Onqelos: nel racconto della creazione egli traduce l’espressione nèfesh chajà ( l’uomo divenne un essere vivente) con le parole “spirito parlante”. Dopo aver osservato che anche gli animali vengono chiamati nefesh chajà, Rashi aggiunge che ciò che caratterizza l’uomo rispetto agli animali è il fatto che “gli è stata aggiunta la conoscenza e la parola”: l’uso corretto o meno di quest’ultima può portare l’uomo a realizzare se stesso, a raggiungere la missione assegnatali, oppure farlo decadere dal ruolo assegnatoli da Dio.
Quanto sia rilevante la parola è dimostrato dall’affermazione che è “la parola dei bambini che sostiene il mondo”, infatti questi, a differenza dei sapienti, sono liberi dal peccato. Secondo il Talmud (niddà 30b), il feto apprende tutta la Torà mentre si trova dentro il ventre materno, ma al momento della nascita un angelo lo colpisce sulla bocca e gliela fa dimenticare. Prima della nascita il feto non può esprimere i pensieri con parole, ma al momento della nascita diventa “parlante” e dovrà essere capace di dominare tutta la Torà ed esprimerla con espressioni umanamente comprensibili.
La stessa forma della lettera PE accennerebbe proprio a questo: le sue due forme (quella chiusa פ e quella aperta ף) può essere paragonata al feto nelle due situazioni: prima della nascita – quando è in posizione fetale e non può parlare – e dopo la nascita, quando apre finalmente la bocca.
Qual è la funzione che ha la parola il giorno di Kippur? Il Talmud afferma che “devarim shebalev enam devarim “ (le parole che rimangono nel cuore non hanno effetto”, kiddushin 49b) e questo è almeno uno dei Le norme sulla maldicenza sono complesse e oggi che i media hanno invaso la nostra vita, educare la nostra parola può evitare il degrado della vita privata prima e di quella pubblica. Può sembrare riduttivo dare tutta questa importanza all’educazione a un uso appropriato della parola: infatti potrebbe essere più opportuno cercare di cambiare la società educando la persona a comportarsi bene e a compiere le giuste azioni. Una risposta a questa domanda troviamo nel midrash (Vajikrà Rabbà 16:2):
“Chi è l’uomo che desidera la vita che ama vedere il benessere per molti giorni? Trattieni la tua lingua dalla maldicenza e le tue labbra dal dire cose ingannevoli. Allontanati dal male e fa’ il bene, cerca la pace e corrile dietro (Salmi 34°, 13-15). Un venditore ambulante girava per i paesi vicini a Zipporì e proclamava: “Chi vuol acquistare una medicina che dà la vita”. Le persone lo pressavano per acquistare la medicina. Rabbi Jannài era sdraiato nel suo triclinio a studiare la Torà e lo sentì mentre proclamava: “Chi vuol acquistare una medicina che dà la vita?” Gli disse: “Vieni qui e vendimela”. Il venditore gli rispose: “Non sei tu che hai bisogno di questa medicina e neanche le persone come te”. Ma egli insistette e quello andò da Rabbi Jannài. Il venditore tirò fuori il libro dei Salmi e gli mostrò il verso: “Chi è l’uomo che desidera la vita …” e aggiunse cosa c’è scritto dopo? Trattieni la tua lingua dalla maldicenza”. Disse Rabbi Jannai: “Per tutta la mia vita ho letto questo verso, ma non avevo capito quanto fosse semplice, finché non è venuto questo venditore ambulante che mi ha detto: “Chi è l’uomo che desidera la vita…”..
Qual è l’insegnamento così nuovo che Rabbi Jannài imparò dal venditore ambulante? Rabbi Jannài pensava che la parte fondamentale di questo passo dei Salmi fossero i due versi nella loro interezza, e cioè la medicina che dà la vita è l’intera osservanza della legge (come si deduce dai versi finali). Solo ora Rabbi Jannài ha capito che l’osservanza della norma “Trattieni la lingua dal dire maldicenza” è la garanzia per arrivare all’osservanza automatica delle altre mitzvoth.
Secondo i Maestri, la maldicenza è una colpa grave in quanto uccide tre persone: la persona che la fa, chi l’ascolta e quella verso cui è diretta. Non si tratta evidentemente di una morte fisica (anche se in taluni casi una calunnia o una maldicenza possono distruggere una persona sia in senso fisico che morale: Le parole sono pietre).
Rosh Ha Shanà e Kippur sono un’occasione quasi unica per fare i conti con le proprie parole: le innumerevoli nostre preghiere non possono riscattare l’uso così dicotomico che si fa della parola: infatti la purezza che deva avere la preghiera mal si accompagna con la maldicenza.
Con l’augurio che ognuno possa quest’anno nel fare la propria Teshuvà trasformare la sua lingua in lashon kodesh, una lingua che parla solo di cose sacre.