Flushing Meadow, Queens, New York, 29 novembre 1947 ore 12.40: l’Onu vota la risoluzione 181 che di lì a pochi mesi avrebbe portato alla fondazione dello Stato d’Israele.
Con 33 sì, 13 no, 10 astenuti passa la mozione che prevedeva il piano di spartizione della Palestina mandataria, che sanciva la creazione di due stati, uno ebraico e uno arabo, con l’assegnazione di Gerusalemme sotto il controllo internazionale. Il quorum di due terzi dei voti a favore, richiesto dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, è ottenuto fra la gioia del popolo ebraico, che finalmente aveva un proprio Stato.
Per i Sabra, gli ebrei che già vivevano nell’area da oltre 3mila anni, significa avere un’organizzazione sociale moderna e riconosciuta a livello internazionale. Per gli ebrei della Diaspora, un punto di riferimento dopo secoli di persecuzioni.
David Horowitz, delegato sionista all’Assemblea, ricorderà in seguito: “Sentimmo battere le ali della storia su di noi”.
A Gerusalemme, Golda Meir si affaccia dal balcone del palazzo dell’Agenzia ebraica e rivolgendosi alla folla, dice:
“Per duemila anni abbiamo aspettato la nostra liberazione. Ora che è qui è così grande e meravigliosa che va oltre le parole umane. Ebrei, Mazel tov!”.
Tutti contenti? No, anzi.
I rappresentanti degli stati arabi sono scioccati. I delegati di Libano, Siria, Arabia Saudita, Yemen, Iraq ed Egitto, si alzano ed escono dalla sala in segno di protesta. Subito dopo l’alto Comitato Arabo trasmette al segretario generale Lie un comunicato in cui è scritto che gli arabi di Palestina “non accetteranno mai alcuna potenza che li costringa a rispettare la spartizione”.
Il giorno seguente in Palestina esplodono i primi colpi dei Paesi arabi in quella che sarebbe poi divenuta la Guerra di Indipendenza di Israele che nel mondo arabo si chiama “Nakba” – la catastrofe.
Da quel giorno sono passati 69 lunghi anni, tante guerre e troppi morti. Vivere insieme pacificamente non è semplice, ma sarebbe il regalo più bello che i due popoli potrebbero farsi.