Il significato storico della dichiarazione di Mike Pompeo sui territori contesi. I giornali italiani, anche quelli che parlano molto di Medio Oriente non perdendo occasione di attaccare “coloni” e “colonie”, non ne hanno quasi parlato, ma si tratta di una notizia davvero storica, che merita di essere oggetto di commento e di riflessione: il segretario di stato, cioè il ministro degli esteri americano Mike Pompeo, evidentemente su indicazione del presidente americano Trump, ha emesso una dichiarazione ufficiale in cui certifica la decisione americana di non considerare “territori occupati” più Giudea e Samaria e Gerusalemme “Est” e quindi di non ritenere che agli insediamenti israeliani in questi territori si debba applicare la convenzione dell’Aia che proibisce spostamenti di popolazione da parte delle potenze “occupanti”. In sostanza, gli Usa non credono più nel mantra di tutti quelli che sentenziano e moraleggiano sul conflitto fra Israele e i palestinisti, cioè che “le colonie sono illegali” e di conseguenza le pianificazioni israeliane di nuove abitazioni sono “crimini di guerra” e (almeno nell’opinione dei più estremisti) la “resistenza” (magari includendo il terrorismo) è giustificato. Da ultimo anche la molto politicizzata e molto antisionista (il che, lo sappiamo significa antisemita) “corte di giustizia” europea ha sentenziato che bisognava etichettare i prodotti provenienti da Giudea e Samaria in meniera diversa da quelli provenienti dal territorio di Israele a ovest della linea verde, in modo che i consumatori potessero rendersi conto del loro carattere “ingiusto”.
Queste tesi non hanno nessun serio fondamento né storico né giuridico e Israele, coi suoi sostenitori, le ha sempre rifiutate con ottime ragioni. Le ricapitolo brevemente: non c’è mai stato uno stato palestinese che Israele abbia occupato. Fino al 1918 tutto il territorio che costituisce Israele e i paesi confinanti era da parecchi secoli parte dell’impero ottomano. Dopo la guerra esso fu suddiviso in vari stati dai trattati di pace e poi dall’assemblea della “Società delle Nazioni” (l’Onu del tempo) che all’unanimità costituì il “Mandato britannico di Palestina”, con lo scopo esplicito e unico di fornire al popolo ebraico una “casa nazionale” (eufemismo per Stato) e di favorire “la popolazione e l’insediamento ebraico” in quel territorio che comprendeva l’attuale Israele, Giudea e Samaria e tutta la Giordania. Un primo tradimento degli inglese alla loro missione consistette nello scorporare la “Palestina” dal mandato per destinarlo agli arabi (per cui la divisione in due stati è già avvenuta, quasi un secolo fa). In seguito gli inglesi cercarono di comprarsi la benevolenza araba limitando l’immigrazione israeliana e non reprimendo la guerra che bande arabe facevano contro gli inseguimenti israeliani, fino ad aiutare la loro aggressione del 1948.
Lo stato di Israele fu stabilito una seconda volta con la deliberazione dell’Assemblea dell’Onu del novembre 1947, che proponeva (ai termini dello statuto dell’Onu non poteva disporre) una divisione del territorio che fu respinta dagli arabi e poi travolta dalla guerra di indipendenza che Israele vinse. Alla fine di questa guerra si consolidarono delle linee armistiziali (la famosa linea verde) che gli arabi stessi badarono bene a definire nei trattati di armistizio come provvisori, da non considerarsi confini internazionali. La Giordania occupava così anche parti del mandato al di là dei confini che le erano stati assegnati trent’anni prima dai britannici, ma questa occupazione non fu riconosciuta da nessuno nella comunità internazionale, salvo gli stati arabi. Quando Gerusalemme, Giudea e Samaria furono liberate da Israele nella Guerra dei Sei Giorni, non si trattò di un’occupazione, perché non vi era uno stato proprietario (in particolare non esisteva proprio uno stato palestinese) da cui quelle terre potessero essere tolte e “occupate”. Israele ha infatti continuato a parlare di “territori contesi”. I trattati di Oslo non hanno modificato questa situazione: non vi si parla di Stato Palestinese, né si riconoscono occupazioni. Si dice che il destino dei territori contesi sarà deciso alla fine delle trattative e si stabilisce un’”autonomia” palestinese, cosa ben diversa da uno stato.
E allora perché i movimenti palestinisti chiamano Giudea e Samaria (ma spesso anche il resto di Israele) “territori occupati”? Semplice, perché desiderano occuparli loro e pensano che la loro volontà costituisca un diritto, anche alla luce della credenza islamica che un luogo in cui si siano insediati, magari anche con la forza, i musulmani sia loro di diritto e che nessun altro debba governarli. Questa è fra l’altro la ragione per cui quando c’era l’occupazione giordana di Giudea e Samaria o quella egiziana di Gaza non hanno mai protestato: gli occupanti erano musulmani, quindi legittimati.
E perché gli europei e fino a poco tempo fa anche gli americani e molte organizzazioni internazionali condividono questa menzogna dell’”occupazione”? I motivi sono due. Da un lato si vuole compiacere gli arabi e i musulmani – naturalmente a spese di Israele. Lo si vuol fare per ragioni economiche (il petrolio, gli sbocchi commerciali), per senso di colpa nel ricordo del colonialismo, per avere in cambio appoggio diplomatico. Dall’altro, per odio a Israele e agli ebrei. E’ il vecchio antisemitismo che non si è mai spento, unito all’ostilità che i carnefici provano per le loro vittime, anche quando sono costretti a pentirsene. Entrambi questi aspetti si vedono confrontando le politiche antisraeliane dell’Unione Europea, di Obama, di molti politici e intellettuali “progressisti” col silenzio sulla Cina che opprime il Tibet e Hong Kong, sulla Turchia che ha invaso Cipro (stato membro dell’UE), sulla Russia che ha continuato a fare la potenza coloniale in Cecenia, Georgia, Ucraina.
Bisogna dire che l’amministrazione Trump ha saputo abbattere il tabù delle menzogne intorno a Israele. Come per Gerusalemme capitale, così per l’“occupazione”, è impossibile sapere quali saranno le conseguenze politiche a lungo termine. Ma certamente un po’ di luce è entrata nella fitta nebbia ideologica che avvolge la situazione reale del conflitto. Sarà impossibile almeno dare per scontato che Tel Aviv, dove non ha sede né il Parlamento, né il capo dello stato, né la corte suprema, né i ministeri (salvo uno) israeliani, sia la capitale dello stato ebraico. E così non i potrà più considerare ovvio che gli insediamenti ebraici nella terra d’origine (perché “giudeo”, “jew”, “jude” “juif” ecc. vengono dall’essere cittadino della Giudea) siano “colonie illegali”, “occupazione”, “furto della terra araba”. Di questo dobbiamo essere grati a Trump e a Netanyahu che ha saputo costruire un rapporto con lui tale da indurlo a questi passi. Speriamo che entrambi continuino a governare, alla faccia della politicizzazione della giustizia, e a far del bene a Israele.