A Febbraio scorso, finalmente, dopo molti anni di richieste, il Vaticano ha aperto agli studiosi i suoi archivi riguardanti il papato di Pio XII: il periodo della Shoah e gli anni immediatamente precedenti e successivi. Molti storici si erano prenotati per accedere alle carte, sperando di capire meglio le scelte del Papa che tacque durante la Shoah e non intervenne nemmeno quando i nazisti deportarono buona parte della comunità ebraica romana, praticamente sotto i suoi occhi. Gli archivi hanno funzionato per poco tempo, prima della chiusura generale dovuta al Covid, ma qualche risultato di queste ricerche è già uscito. In particolare è interessante il resoconto che ne dà David Kertzer, lo storico della Brown University che da molti anni lavora sul rapporto del Vaticano con gli ebrei e ne ha tratto diversi libri ben documentati e molto coraggiosi (per esempio Prigioniero del papa re Rizzoli 1996; I papi contro gli ebrei, Rizzoli 2002; Il patto col diavolo Rizzoli 2014).
L’articolo di Kertzer si può consultare qui e riguarda due episodi molto significativi, di cui quasi solo uno è stato illustrato, in maniera molto parziale e discutibile, nell’unico articolo che la stampa italiana gli ha dedicato (Antonio Carioti sul Corriere della Sera, riportato qui). Questo primo episodio riguarda la proposta che un gesuita, già addetto ai rapporti del Vaticano col governo italiano, padre Pietro Tacchi Venturi (quello che dopo la liberazione cercò di convincere il governo italiano a mantenere in vigore buona parte delle leggi razziste contro gli ebrei) fece a Pio XII a Dicembre ‘43, ben due mesi dopo il rastrellamento degli ebrei di Roma, di mandare una nota diplomatica di dissenso al regime nazista, peraltro scritta in un linguaggio esplicitamente antisemita. Vi sono, diceva la bozza di Tacchi Venturi, “gravi indiscutibili inconvenienti causati dal giudaismo quando arrivi a dominare o a godere di molto credito in una nazione, ma in Italia le leggi razziali del fascismo hanno già ridimensionato questo pericolo e dunque non serve deportarli”. Anche a questo linguaggio, sostanzialmente complice col nazismo, si oppose un altro prelato di curia che aveva un ruolo importante nella diplomazia vaticana, e sarebbe stato poi nominato vescovo (da Giovanni XXIII) e cardinale (da Paolo VI): Angelo Dell’Acqua. Costui sosteneva che era meglio non irritare i tedeschi neanche con discorsi così “comprensivi”. E il Papa naturalmente accettò il suo suggerimento. Del suo silenzio si sapeva, se n’è discusso moltissimo: ma è importante trovare la prova che questo silenzio non fu casuale o distratto, ma una presa di posizione politica decisa dopo ragionamenti e discussioni approfondite: meglio ignorare il genocidio e non avere guai.
La seconda vicenda riguarda meno persone, ma è altrettanto significativa sul piano morale. Riguarda Gérald e Robert Finaly, due bambini figli di una coppia di ebrei austriaci, Fritz e Anni Finaly, che nel ‘38, dopo l’annessione alla Germania erano fuggiti dall’Austria cercando di arrivare in Sudamerica, ma non avevano ottenuto il visto e si erano trovati bloccati nella Francia meridionale, a Grenoble. . Nel ‘44, intuendo di essere sul punto di essere catturati dai nazisti, che poi in effetti li catturarono e li deportarono ad Auschwitz e li uccisero lì, Fritz e Anni Finaly affidarono i loro due figli, che allora avevano tre e quattro anni, a un’amica, Marie Paupaert, che a sua volta, terrorizzata dalla loro cattura, li consegnò subito a un convento di monache, le quali a loro volta li affidarono alla direttrice della locale scuola per infermiere, Antoinette Brun, che li trattenne negli anni successivi. Nel febbraio del ‘45, quando la Francia del Sud era stata liberata dalle truppe alleate, la zia dei bambini, Marguerite, che era rifugiata in Nuova Zelanda, scrisse al sindaco di Grenoble per recuperare i nipotini e poi un altro fratello si presentò di persona da Brun, che però si rifiutò di restituirle i bambini, che nel frattempo aveva fatto battezzare.
Inizia qui un’odissea che si concluse solo otto anni dopo. Brun continuò a rifiutarsi anche di fronte a un ordine del tribunale, nascose i bambini in un convento e poi li fece espatriare clandestinamente in Spagna. Fu arrestata e con lei diversi religiosi cattolici che le furono complici. Il rapimento di due figli di vittime della Shoah fece molto rumore in Francia, con numerosi articoli di giornale, interventi politici e giudiziari. Era quindi un episodio conosciuto, anche se ormai largamente dimenticato. Quel che Kerzer ha trovato sono gli atti interni al Vaticano, che mostrano come il rapimento dei bambini fosse stato direttamente voluto da Pio XII e coordinato dalle massime autorità del segretariato di stato e della nunziatura (l’ambasciata) vaticana in Francia. Da parte ebraica vi furono interventi del del World Jewish Congress e del rabbino capo di Israele Itzhak Herzog che portarono a trattative infruttuose, perché il Papa, per restituire i bambini rapiti alla famiglia voleva la garanzia che non sarebbero stati messi a contatto con l’ambiente ebraico, perché ormai “appartenevano alla Chiesa”. Chi per il papato trattava con il mondo ebraico era proprio quell’Angelo Dell’Acqua che qualche anno prima aveva sconsigliato di protestare coi tedeschi e consigliato Pio XII a “diffidare dell’influenza degli ebrei” Alla fine, dopo otto anni di resistenza, nel 1953, solo l’enorme danno di immagine provocato dalla resistenza alle decisioni dei tribunali francesi e dall’arresto di preti e monache sotto l’accusa infamante di rapimento obbligò il Vaticano a cedere, e i bambini poterono arrivare dai loro parenti in Israele, dove in seguito hanno vissuto da ebrei vite normali e ben integrate.
Solo la felice conclusione differenzia questa storia dall’altra ben nota agli ebrei italiani, il rapimento di Edgardo Mortara a Bologna nel 1858 ad opera di sgherri della Chiesa e il rifiuto di Pio IX di restituire il bambino alla famiglia col pretesto che era stato battezzato. Ma da allora era passato quasi un secolo e in mezzo c’era stata la Shoah, che evidentemente non aveva insegnato nulla alla curia romana, almeno sul rispetto della libertà di religione e dell’integrità della famiglia. Vale la pena di ricordare che chi gestì sul piano diplomatico la difesa del rapimento e coordinò tutti gli sforzi della Chiesa per non restituire i bambini fu il pro-segretario di Stato Giovanni Battista Montini, destinato a diventare papa Paolo VI. Di sua mano, per esempio, è l’istruzione per le trattative con Rav Herzog, in cui si dice che “bisogna prendere le opportuna precauzioni perché essi (i bambini) non tornino a essere ebrei”. Sua è la lettera al nunzio vaticano a Parigi in cui si lamenta che “alcuni giornali riferiscono che i fratelli Finaly saranno presto portati in Israele per essere rieducati al giudaismo. Ciò è in contrasto con gli accordi che il cardinale Gerlier ha concluso tempo fa“. Sua è la protesta con il governo francese, dopo che i due bambini furono finalmente riconsegnati e portati in Israele dalla famiglia, perché la liberazione dei due rapiti “aveva inflitto un duro colpo ai diritti della Chiesa e anche al suo prestigio nel mondo“. Bisogna aggiungere ancora che alla campagna di Pio XII collaborò anche monsignor Roncalli, nunzio a Parigi all’inizio dell’affare (che poi però all’inizio del ‘53 fu nominato cardinale e trasferito come patriarca di Venezia). Un altro nome pesante della Curia coinvolto in questa vicenda è quello del Cardinale Ottaviani, allora capo del Sant’Uffizio.
Ricordare questi episodi non vuol dire naturalmente esprimere un giudizio definitivo su tutti gli ecclesiastici coinvolti, che dovevano certamente una rigida obbedienza al Papa. Di qualcuno fra essi, come il futuro Giovanni XXIII, sono documentati numerosi gesti di solidarietà verso glie ebrei perseguitati dai nazisti. Altri erano francamente antisemiti, a partire probabilmente da Pio XII. Quel che storie come questa confermano è l’atteggiamento costante del Vaticano di privilegiare “il prestigio della Chiesa” e i suoi “diritti” sulla vita delle persone. Lo vediamo ancora oggi. E inoltre bisogna leggere in questi fatti una generale diffidenza, un fastidio verso gli ebrei che traspaiono in ogni dichiarazione riportata da Kerzer. Del resto negli anni Cinquanta la “Civiltà Cattolica” organo dei gesuiti ma sempre soggetto all’approvazione papale, continuò la sua secolare campagna contro gli ebrei. La dichiarazione “Nostra Aetate” arriverà solo nel ‘63, la visita di Papa Wojtyla alla Sinagoga di Roma nell’86, il riconoscimento vaticano dello stato di Israele solo nel ‘93, quarantacinque anni dopo la sua fondazione. Nei termini di una storia due volte millenaria di persecuzioni e calunnie sono passati solo pochi momenti, si tratta di una tendenza iniziata ma non ancora consolidata come un fatto compiuto: non bisogna illudersi troppo. Per questo il lavoro di chi come Kerzer indaga sulla persistenza del pregiudizio antiebraico nella Chiesa è prezioso.