La festa di Pesach, detta anche Zemàn Cherutenu, festa della nostra liberazione, ha tre momenti diversi:
1) il pomeriggio del 14 Nissan al per il quale è detto “Pesach (cioè sacrificio pasquale) è per il Signore”;
2) la sera del 15 Nissan: primo giorno della “festa delle azzime”;
3) il 21 di Nissan: settimo e ultimo giorno di festa.
Si tratta di tre tempi diversi, due dei quali sono anche giorni di festa e di astensione dal lavoro e tutti e tre assieme costituiscono un unico Règhel (pellegrinaggio): “Il 14° giorno del mese alla sera mangerete matzot”. Sette giorni e un quarto di giorno sono inseriti in una cornice cha ha un inizio, il sacrificio pasquale da fare il 14° giorno, ha una fine – il settimo giorno che ricorda il passaggio del Mar Rosso, e una parte centrale, festa delle azzime, e tutti insieme costituiscono un’unica festa: Pesach – Hag ha matzot, nonostante abbia due nomi.
Perché Pesach non inizia alla sera come tutte le altre feste, ma già nel pomeriggio (a partire dalle 11 circa, e per questo non si mangiano sostanze lievitate fin dal mattino della vigilia). Il passaggio dalla schiavitù alla libertà ha avuto un momento in cui è stata preparata, proprio nel 14, ma il tramonto del 14 è stato il momento cruciale, un istante in cui tutto poteva accadere – continuazione della schiavitù o libertà: ogni scelta è difficile e cruciale, e non bisogna perdere il momento magico: la decisione va presa bechippazòn, cioè in fretta, e con lo stesso spirito dobbiamo ricordare e vivere quella indecisione tra schiavitù e libertà che hanno vissuto gli ebrei in quel momento, per prendere la decisione giusta. “Sacrificherai il Pèsach alla sera, al tramonto del sole, il tempo della tua uscita dall’Egitto” (Deut. 16, 6): al pomeriggio, dalla sesta ora in poi, lo sacrificherai, al tramonto lo mangerai, e al momento dell’uscita brucerai il resto (Midràsh Sifrì a Deut: 16, 7). Al sacrificio pasquale fa da corollario la Matzà che è pane povero e dell’afflizione (quindi della schiavitù), ma anche pane della libertà.
Che bisogno c’è di prolungare i festeggiamenti per sette giorni?
Filone di Alessandria sostiene che il numero sette è quello che dà maggiore gioia e santità. Il primo giorno è collegato con il passato e il settimo con il futuro: solo dopo che l’Egitto fu sommerso dalle acque del Mar Rosso, gli ebrei si poterono veramente considerare fuori dall’Egitto.
Inoltre, se si vuole dare importanza e radicare un’idea nelle persone, non basta dedicarle un solo momento, un giorno, è necessario lasciare che l’esperienza possa penetrare nel carattere e dell’uomo: sette giorni (nella Diaspora otto) sono un periodo intero che può lasciare un segno.
L’emunà (la fede e la fiducia) che caratterizza il livello raggiunto il settimo giorno è la conseguenza dell’avere visto la conclusione del processo della liberazione con la morte degli egiziani e la fine dell’Egitto, come categoria spirituale e culturale: in fondo il Faraone e i suoi cavalieri avrebbero potuto raggiungere gli ebrei e ricondurli in Egitto. L’Egitto scompare nel mare della storia e Israele può attraversare i secoli senza più alcun timore: gli ebrei erano riusciti finalmente non solo a uscire dall’Egitto, ma a fare uscire l’Egitto dal proprio orizzonte.
Questo è il senso di quanto diciamo la sera di Pesach nella Hagadà: ognuno deve sentire come se lui stesso fosse uscito dall’Egitto, facendo uscire l’Egitto da dentro di sé.