In tutta la fitta trama di storie, riti, cerimonie, feste, riflessioni che costituiscono la cultura ebraica è difficile trovare qualcosa di più caratteristico e significativo di Pesach. Nella festa della nostra libertà, come l’hanno chiamata i maestri, si ricorda in sostanza la nascita del popolo ebraico, l’uscita dall’Egitto, i miracoli che l’hanno determinata, dalle piaghe al passaggio del Mar Rosso. E la festa è esplicitamente, fin dalle parole del Talmud che ne hanno codificato la forma attuale, una macchina pedagogica, destinata a trasmettere fra le generazioni l’identità ebraica e i valori che la fondano. La liturgia della cena rituale (il “Seder”) è finalizzata a suscitare meraviglia e domande, dunque discussioni e spiegazioni, che facciano capire da dove viene il popolo ebraico e qual è la specificità della sua condizione.
Già questo fatto è pressoché unico. Ci sono dei popoli (molto pochi, per esempio i romani, ma non gli italiani, i francesi, i greci) che identificano le loro origini in un episodio preciso e lo narrano (per esempio nell’Eneide). Ma l’importanza identitaria di Pesach è unica, anche perché dell’insegnamento fa parte l’idea che la radice dei fatti narrati – la persecuzione antiebraica del Faraone – sia destinata a ripetersi “in ogni generazione”. Pesach è dunque anche un modello di sopravvivenza, una pedagogia della resistenza al male.
Ma vi è di più. L’implicazione fondamentale della narrazione è che il popolo ebraico si è formato nell’esilio e nella schiavitù. Fondazione della nazione e sua liberazione sono la stessa cosa, cui seguirà subito la rivelazione della Legge sul Sinai e la conquista della Terra promessa. La dichiarazione solenne, fatta all’inizio del Seder, che “siamo stati schiavi in Terra d’Egitto” è sconvolgente rispetto a un orgoglio nazionale, almeno secondo i criteri della tradizione europea, così come quella che “mio padre era un arameo errante”. Schiavi, nomadi, oppressi e perseguitati che si fondono in un popolo grazie all’intervento divino: questa è l’autodefinizione del popolo ebraico che esce dalla festa e dal testo che viene recitato nel Seder.
La maggior parte dei popoli considerano di essere l’espressione naturale di un territorio, rispetto a cui si pensano come autoctoni, anche se noi sappiamo che non è vero: ci sono prove genetiche, archeologiche e storiche che mostrano come tutti vengano da immigrazioni o invasioni. Lo stato, la religione, l’identità collettiva arrivano dopo. Gli ebrei imparano da Pesach un ordine diverso: è una famiglia che diventa un popolo liberandosi dall’oppressione, accogliendo un invito che è prima politico-sociale (la liberazione), poi religioso (il dono della Torah) e infine trova la sua realizzazione nella Terra Promessa. La narrazione di Pesach sottolinea che tutto ciò avviene per decisione e intervento diretto della divinità, tanto che nella Haggadah, il testo tradizionale del Seder, il ruolo di Mosè è quasi assente.
Non è compito mio analizzare la simbolica religiosa e i principi che essa trasmette. Mi interessa qui sottolineare che vi è un evidente livello di senso storico-politico. Il primo aspetto di questo livello è una definizione di libertà, che si ritrova continuamente nella cultura ebraica tradizionale, ma che qui è sottolineata, proprio perché questa è la festa della libertà (“zeman cherutenu”). Questa libertà non è costituita dal diritto di ciascuno di modellare la sua vita come vuole, che nel pensiero ebraico è semmai garantita dalla creazione di Adamo a immagine divina, ma l’autonomia del popolo, la possibilità concreta di seguire le sue leggi, i suoi costumi, la sua religione, di non dipendere dagli altri. Per questo il suo senso naturale è la conquista di una patria.
E’ una libertà collettiva, nazionale, che implica una scelta di appartenenza e di solidarietà. Appartenenza, cioè scelta, adesione al destino storico del popolo, che è simboleggiata dalla richiesta divina di segnare le porte con il sangue del sacrificio di un agnello che per gli egizi era un’immagine divina: scelta scandalosa e pericolosa, che è richiesto di rendere pubblica. Il nome Pesach deriva dal verbo pasach “passare oltre”. La piaga della morte dei primogeniti salta oltre, non colpisce le case che hanno dato pubblico segno della propria appartenenza, sfidando le rappresaglie egizie. Questa libertà inoltre è solidale, non è individuale ma di famiglia o di gruppi di famiglie. Il Seder è consumato in gruppo ed è aperto a “chi ha fame”; il pane azzimo che si deve consumare per i giorni di Pesach è “pane della povertà” anche in senso letterale, alimento dei poveri.
In questa festa sono in gioco insomma i principi della cultura ebraica. Che è presentata come sospesa fra il rischio del genocidio e la promessa di un futuro di libertà. La libertà è possibile se si ha il coraggio e la determinazione di seguire il cammino segnato, se si riesce a staccarsi dalla condizione più ovvia dell’autoconservazione passiva e si sceglie di essere davvero ciò che si è, di rivendicare la propria identità di andare “l’anno prossimo a Gerusalemme”, come si usa dire a conclusione del rito. Questa lezione è risuonata per millenni e ha contribuito potentemente alla vita del popolo ebraico e al superamento dei suoi momenti più difficili.