Il tema è ben noto, affrontato da tempo, ma continua a riemergere come una ferita che non guarisce. Si tratta degli stipendi che l’Autorità Palestinese paga ai condannati per terrorismo nelle carceri israeliane e alle famiglie di quelli che sono morti nel tentativo di uccidere degli ebrei. Si sa che le tariffe sono proporzionali alla gravità della condanna e dunque del reato commesso (fino a 2500-3000 euro al mese, che da quelle parti sono vera ricchezza).
Si conosce la quota del budget dell’Autorità Palestinese dedicata a queste spese (il sette per cento, un’enormità). Si sa che questi soldi non appartengono all’Autorità, ma derivano da aiuti esterni, soprattutto americani ed europei. Tant’è vero che il Congresso Usa ha deciso di trattenere dagli aiuti le somme dedicate al pagamento degli stipendi ai terroristi, lo stesso atteggiamento ha preso l’Australia anche l’Europa ha chiesto spiegazioni e qualche paese (non l’Italia, purtroppo) ha preso provvedimenti concreti. Pure Israele ha approvato una legge per trattenere l’ammontare di questi finanziamenti dai dazi che in seguito agli accordi di Oslo preleva sulle importazioni di merci per le zone controllate dall’AP.
Insomma la pressione collettiva per costringere l’AP abbandonare questi pagamenti è molto forte, tutto sommato la sola vera richiesta che la comunità internazionale fa a Abbas. La ragione di questo atteggiamento è molto evidente. L’Autorità Palestinese non si riserva il diritto di rivedere le sentenze israeliane per giudicarne il fondamento e l’equità, il che sarebbe certamente discutibile, ma si potrebbe comprendere. Al contrario essa accetta la loro valutazione dei fatti tant’è vero che gli stipendi sono in proporzione al reato. Semplicemente inverte il loro valore: ciò per cui i tribunali condannano, L’AP premia. Bisogna capire di che cosa si tratta: non di opinioni, manifestazioni, adesioni a movimenti ma reati di sangue, per lo più omicidi a sangue freddo di sconosciuti, spesso bambini, neonati, donne incinte, anziani: colpevoli solo di essere ebrei. Non c’è nessun tentativo di distinguere, di separare la militanza, le eventuali azioni di combattimento e i crimini più efferati.
Chiunque per qualunque ragione e in qualunque modo uccide o ferisce degli ebrei è premiato dall’Autorità Palestinese. Neanche il nazismo era arrivato a tanto. Per fare solo un esempio gli assassini che trucidarono con le loro mani i due giovani israeliani che avevano sbagliato strada ed erano entrati con la loro automobile a Ramallah, cercando rifugio in una stazione di polizia dal linciaggio della folla, (e anche, a quanto pare letteralmente divorarono parti del loro corpo) e ora scontano l’ergastolo in una prigione israeliana, hanno ricevuto mezzo milione di dollari.
Essi sono esaltati nei territori dell’AP. Di recente il reporter della TV di Ramallah ha introdotto ciascuno di loro con l’appellativo di “eroi”, mentre la sorella di uno dei tre terroristi sottolineava quanto la famiglia sia “orgogliosa” di lui.
Il fatto interessante è che nonostante le leggi americani e israeliana incidano con forza sulle finanze dell’AP, e sebbene la richiesta di abbandonare questi finanziamenti sia molto generale, Mohamed Abbas continua a dichiarare di non volerlo fare “finché avrà vita”.
Oltre che sulla buona federe della “moderazione” del presidente a vita dell’AP, questa scelta dice molto sul regime che egli presiede: esso non somiglia alla maggior parte dei governi del mondo, che prima d’ogni altra cosa sanno di avere il compito di sviluppare la vita dei propri cittadini, dunque l’economia, le infrastrutture, la sanità, l’istruzione. L’Autorità Palestinese è invece una giunta terrorista, che è nata sul progetto della guerra a Israele, si occupa di alimentarla e di farle propaganda all’interno e all’estero. I terroristi sono la sua sola base politica, essa non può permettersi di abbandonarli. Di più, i suoi leader credono davvero che chi ammazza degli ebrei, che siano neonati sgozzati o gente inerme che si affida alla polizia e viene linciata, siano degli eroi. E’ con loro purtroppo che Israele si trova ad avere a che fare.