Anche in tempi di rischio medico generalizzato, come questi, la politica non si sospende e non spariscono le sue ragioni profonde, le scelte collettive che portano poi ai comportamenti organizzati e anche a quelli individuali, che nei casi più estremi passano dalla normale politica alla guerra e alla violenza terroristica, che purtroppo sono così comuni in Medio Oriente. Vale la pena dunque di parlare qui di un sondaggio uscito qualche giorno fa sugli atteggiamenti politici di una frazione piuttosto piccola, ma significativa degli arabi dell’Autorità Palestinese, quelli che vivono nei sobborghi di Gerusalemme, avendo il permesso di soggiorno che consente loro di muoversi liberamente nel territorio israeliano (e dunque di essere in contato con la realtà di Israele e non solo con la propaganda velenosa del terrorismo), ma che non ne hanno mai chiesto la cittadinanza. Il primo risultato che emerge è che su questo piano della cittadinanza c’è stato un allontanamento notevole. Nel caso un accordo di pace consentisse la scelta:
“dal 2010 al 2015, la percentuale di arabi della Gerusalemme Est che affermava di preferire la cittadinanza israeliana a quella palestinese era aumentata sostanzialmente: dal 35% a un notevole 52%. Ma quel numero è sceso precipitosamente, tra il 10 e il 20%, una volta che la intifada dei coltelli del 2015-16 ha alienato violentemente le due metà ebraiche e arabe della città. Nell’attuale indagine, tale percentuale sembra essersi stabilizzata intorno al 17%, rispetto ai due terzi che preferirebbero scegliere la cittadinanza in uno stato palestinese.”
Questo risultato dipende anche dalla percezione dello scopo collettivo più importante per i prossimi anni:
“Come i loro cugini in Cisgiordania e Gaza, la maggioranza (57%) degli arabi di Gerusalemme Est ora preferisce un obiettivo quinquennale di ‘riconquistare tutta la Palestina storica per i palestinesi, dal fiume al mare’, piuttosto che “porre fine al occupazione per raggiungere una soluzione a due stati ”(32%).
La stessa indicazione viene da una domanda successiva su cosa fare nel caso in cui “la leadership palestinese fosse in grado di negoziare una soluzione a due stati”. Meno di un quinto ha dichiarato “che dovrebbe porre fine al conflitto con Israele”, mentre oltre i due terzi hanno dichiarato “il conflitto non dovrebbe finire e la resistenza dovrebbe continuare fino a quando tutta la Palestina storica sarà liberata”.
“Circa tre quarti affermano che ‘qualsiasi compromesso con Israele dovrebbe essere solo temporaneo’. Quasi altrettanti pensano che ‘alla fine, i palestinesi controlleranno tutta la Palestina’, o perché ‘Dio è dalla nostra parte’ o perché ‘un giorno saremo più numerosi degli ebrei’. Persino sulla stessa Gerusalemme, circa i due terzi dei residenti arabi concordano almeno ‘in parte’ con questa posizione massimalista: ‘Dovremmo chiedere il dominio palestinese su tutta Gerusalemme, est e ovest, piuttosto che concordare di condividerne o dividerne una parte con Israele ‘. […]Tuttavia, quando tali domande sono formulate in termini non di “diritti” ma di aspettative realistiche, emerge una visione molto meno ottimistica. Ad esempio, tre quarti concordano almeno ‘in parte’ con questa affermazione: ‘Indipendentemente da ciò che è giusto, la realtà è che la maggior parte dei coloni israeliani rimarrà probabilmente dove sono, e la maggior parte dei rifugiati palestinesi non tornerà nelle terre del 1948’.”
Insomma, a quasi settantadue anni dalla nascita dello Stato di Israele, a quasi cento dai primi pogrom che segnano l’inizio vero della guerra araba contro gli ebrei in quelle terre, è chiaro che non vi è una disponibilità dalla maggior parte dei sudditi dell’Autorità Palestinese (anche della sua parte “moderata”) ad accettare la prospettiva di una convivenza normale con gli ebrei, anche nell’ipotesi di una divisione in due stati. Ed è chiaro che il sottinteso del progetto di una “lotta armata” fino alla “liberazione” dell’intera “Palestina Storica” (cioè di una “arabizzazione armata dello Stato di Israele”) è una strage di massa paragonabile alla Shoah. E’ chiaro che questo non è un pericolo immediato, come sanno anche gli arabi stessi – lo si vede dall’ultima domanda.
Ma quel che conta per loro è il rifiuto della “normalizzazione”, la conservazione del progetto, che si esprime in atti di violenza simbolica come gli accoltellamenti, i sassi sulle macchine, gli investimenti stradali, ma anche i razzi di Hamas e della Jihad islamica. Questi non sono affatto gesti isolati di supposti “lupi solitari” disperati, ma segnali della continuità di un progetto. Anche il giovane che tutto da solo si imbarca in un attentato omicida, da cui certamente capisce che non potrà uscire vivo, agisce contando sul consenso sociale, che corrisponde poi allo stipendio che l’Autorità Palestinese pagherà a lui, se imprigionato, o alla sua famiglia, se morirà nel tentativo omicida. Per questo Abbas non rinuncia a tali pagamenti: perché insieme alla propaganda martellante per il terrorismo e contro gli ebrei, essi sono il segnale più forte della continuità del progetto di “lotta armata” e in prospettiva di genocidio degli ebrei. Chi in Israele coltiva oggi di nuovo sogni di accordo con le organizzazioni palestiniste (dentro e fuori lo stato), ignora questo stato d’animo e si illude di poter risolvere il conflitto con concessioni che potrebbero solo apparire segni di resa e rafforzare la determinazione terrorista. Come purtroppo fecero gli accordi di Oslo.