Per lo “Stato di Palestina” i no di Abu Mazen a Israele sono solo un danno. E’ sempre una buona regola prendere sul serio quel che dicono i nemici: non tanto quel che affermano in pubblico o le parole con cui cercano di rabbonirci ma ciò che dichiarano nella loro lingua, rivolti ai loro sostenitori. Perché se non ci credono (ma non date per scontato che non credano alle castronerie e alle parole d’odio insensato che dicono, non si diventa capi senza profonda convinzione e fanatismo), senza dubbio ci crede il loro pubblico e si darà da fare per realizzarlo. Le parole di un leader politico sono azioni, anzi possono essere armi, quando il leader comanda degli scalmanati o ha reso fanatici i suoi seguaci proprio con le sue parole.
Insomma, bisogna prendere alla lettera anche Mohamed Abbas, quel vecchio rancoroso e chioccio che guida l’Autorità Palestinese e starlo a sentire. Per esempio nell’ultimo comizio trasmesso dalla Tv, quello in cui ha dichiarato di non riconoscere più Israele e di interrompere ogni collaborazione. Sarà interessante vedere se rifiuterà anche le tasse riscosse per lui da Israele, se cambierà moneta, se rinuncerà ad acqua ed elettricità, soprattutto se non starà a sentire le soffiate dei servizi che gli permettono di evitare di farsi eliminare dai suoi cugini di Hamas. E’ chiaro che questo gesto, esattamente come le sanguinose manifestazioni di Hamas è uno sfogo al sentimento di impotenza che la dirigenza palestinista (e purtroppo in parte anche la popolazione araba) prova nel vedere la “questione palestinese” ormai uscita dall’agenda politica internazionale, rimasta solo uno strumento dell’imperialismo iraniano, mentre Israele stringe accordi e intesse relazioni coi loro ex protettori. Ma questo è un’altra storia.
Voglio concentrarmi invece su un altro brano del suo discorso, che grazie al preziosissimo istituto MEMRI trovate qui filmato con sottotitoli e qui trascritto in inglese. Per vostra comunità ve lo ritraduco in italiano:
“Lo dico perché tutti possano sentire: i salari dei nostri martiri, i nostri prigionieri e i nostri feriti sono i punti in cui tracciamo la linea. Cercano di esercitare pressioni su di noi usando qualsiasi mezzo possibile. Stanno ancora esercitando pressioni, affermando che non dobbiamo effettuare questi pagamenti. Anche se alla fine sottraggono la somma che paghiamo ai martiri dai nostri soldi che sono trattenuti da loro, non [supereremo] quella linea rossa, e glielo abbiamo detto. Questo è stato un problema sacro per noi dal 1965. I martiri e le loro famiglie sono sacri. I feriti, i prigionieri – dobbiamo pagarli tutti. Anche se ci rimane solo un centesimo, lo daremo a loro a loro e non ai vivi.”
Che cosa sta dicendo il presidente di Fatah (la più grande fazione palestinista) dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina, dell’Autorità Palestinese (quel che loro chiamano “Stato di Palestina”: è la carica pubblica, cui Abbas è stato eletto solo una volta dodici anni fa per un mandato di quattro anni e non si è più preso la briga di presentarsi a nuove elezioni)? L’ha già detto molte volte in molte sedi: che rifiuta di smettere di pagare lo stipendio ai terroristi condannati dai tribunali e alle loro famiglie se sono morti, anche se per questo evidente favoreggiamento del terrorismo gli Usa e Israele e perfino alcuni paesi europei gli stanno tagliando i fondi.
In altre parole, dato che il denaro è la misura del valore concreto delle cose, che “dal 1965” (cioè dalla fondazione dell’OLP, in realtà 28 maggio 1964), la cosa più importante è il terrorismo: finanziare, organizzare, onorare, appoggiare, propagandare chi ammazza gli ebrei. Tutto il resto, la costruzione di istituzioni statali (che non è stata realizzata quasi per nulla neppure dopo 25 anni da Oslo), il benessere dei sudditi della sua autorità, l’istruzione, la religione, i riconoscimenti internazionali, “l’amore per la Palestina” al confronto non conta nulla. Figuriamoci “la pace”, che è il contrario del terrorismo. Lo scopo vero dell’OLP (e di Fatah, di Hamas, dell’Autorità Palestinese) è il terrorismo e specificamente di ammazzare più ebrei possibile. Per questo il palestinismo sta fallendo, perché gli ebrei sanno e vogliono difendersi e hanno creato uno stato che funziona sul piano economico, scientifico, culturale e militare; perché il mondo, nonostante tutto, non può appoggiare esplicitamente il progetto di una nuova Shoah e per dare una mano ai terroristi ha bisogno di pretesti sempre più difficili da costruire. Per questo il vecchio lamentoso e minaccioso di Ramallah, disprezzato dalla grande maggioranza dei suoi sstessi sudditi e dai governanti arabi, è la metafora del fallimento della causa palestinista. Si può solo sperare, per il bene di tutti, che prima o poi arriverà una nuova generazione capace di voltare pagina e di darsi come scopo la crescita civile e sociale degli arabi di quei territori e disposta a fare i compromessi necessari.