L’incapacità di formare un governo che corrispondesse alla maggioranza elettorale e il ritorno a nuove elezioni sono una grave sconfitta per la democrazia israeliana. Con le elezioni a Settembre e i due mesi che ci vogliono per il processo di costruzione del ministero, ci sarà di nuovo un governo pienamente legittimato solo a Dicembre e il paese sarà dunque rimasto per oltre un anno affidato a una gestione di proroga. Le leggi consentono al governo attuale, che è quello caduto nello scorso novembre, di svolgere regolarmente la sua attività. Ma nei prossimi giorni dovrebbe essere presentato il nuovo piano di pace dell’amministrazione Trump, e lo stato ebraico dovrà decidere che atteggiamento prendere; c’è un rischio attuale di guerra fra Iran e Usa e Arabia, che potrebbe estendersi a Israele; c’è la sicurezza che le provocazioni da Gaza continuino e la forte probabilità che si estendono al Nord: insomma anche sul piano militare molte decisioni cruciali dovranno essere prese. C’è la minacciata implosione economica dell’Autorità Palestinese, la vecchiaia e possibile scomparsa fisica o politica di Abbas che potrebbe costringere Israele a interventi importanti per la sicurezza in Giudea e Samaria. E infine c’è la paralisi legislativa, proprio nel momento in cui alcuni nodi fondamentali vengono al pettine, per esempio quello dell’eccessivo potere che si è assicurato il ramo giudiziario rispetto al legislativo dello stato, che possono essere corretti solo con nuove leggi, che un parlamento disciolto non può approvare.
Questa sconfitta ha molte cause. La più immediata è la tradizionale accanita personalizzazione della politica israeliana. Se non ci fosse stata la frammentazione delle liste, per esempio con la scissione che ha portato alla nascita della “Nuova destra” di Bennett, che per poche centinaia di voti non ha superato il limite minimo per entrare alla Knesset, il quadro parlamentare sarebbe stato diverso e la maggioranza più chiara. E se Lieberman avesse rispettato il suo impegno elettorale a favorire un governo di centrodestra e non si fosse intestardito in una pregiudiziale di programma, il governo corrispondente alla scelta degli elettori sarebbe nato facilmente.
La seconda ragione è l’anomalia dei charedim. Liberman ha avuto certamente torto nella tattica politica, ma non è accettabile che ci sia un settore importante del paese che rifiuti di contribuire alla sicurezza comune. Questo non corrisponde neppure ai principi religiosi, perché la Bibbia è piena di esempi di leader religiosi che combattono per difendere il popolo ebraico, da Abramo a Giosuè ai giudici e ai re, e comunque vale il principio dell’obbedienza alla legge di ogni paese. Dietro il rifiuto di contribuire giustamente alla leva militare non c’è solo una richiesta di privilegi inaccettabile dal punto di vista democratico, ma anche un mancato riconoscimento di Israele come lo stato del popolo ebraico e perfino come uno stato riconosciuto, che può legalmente imporre tasse e obblighi di leva. E’ un tema estremamente preoccupante nel momento in cui la comunità charedì cresce di numero e influenza. La scissione fra questo grande ambiente religioso e gli altri religiosi che invece, sulla base dell’insegnamento di grandi rabbini come Rav Kook, sono i più impegnati nella difesa di Israele, è un problema veramente grave per il popolo ebraico.
La terza ragione, non bisogna nasconderselo, è la caccia mediatica e giudiziaria cui è stato sottoposto un grande statista, forse il più grande nella storia dello stato di Israele dopo Ben Gurion, come Bibi Netanyahu. Da molti anni ormai in corso una campagna mediatica e politica d’odio, una persecuzione giudiziaria basata su prove insussistenti, un tentativo di azzoppamento con ogni mezzo, che è riuscito a bloccare il processo democratico. L’idea di mostrare che chiunque potesse governare salvo Netanyahu ha influenzato l’atteggiamento politico di molti attori di questa vicenda, a partire dalla formazione di un gruppo politico privo di una coerenza ideologica, a parte il tentativo di rovesciare il premier, come i “Blu e bianchi”. Senza questo accerchiamento, Netanyahu sarebbe probabilmente riuscito a costruire un compromesso per costituire il governo. Ed è evidente che in questa situazione non potranno passare i progetti di legge proposti per riequilibrare i rapporti fra magistratura e parlamento, fra cui vi era una sorta di immunità parlamentare, come quella che è esistita in Italia fino alla spallata giustizialista di “Mani pulite”.
Al di là degli aspetti un po’ folkloristici delle trattative in bella vista fra interessi diversi che sempre si accompagnano alla democrazia, fin dai tempi dell’antica Atene (mentre nelle dittature e negli assolutismi queste cose si fanno in segreto nelle corti), anche questa crisi mostra che il sistema democratico funziona senza eccezioni in Israele, a differenza di quel che avviene in tutto il mondo arabo, dove i problemi di leadership si risolvono in genere con la violenza. E certamente lo stato ebraico ha la forza culturale, politica e giuridica, oltre a quella militare, per superare l’inciampo. A noi spettatori appassionati non resta che guardare con attenzione quel che accadrà nei prossimi mesi.