Gli ebrei di Cori, come gli altri presenti sul territorio dello Stato Pontificio, erano andati incontro ad alterne fortune nel corso dei secoli. Tuttavia, nel 1555, la loro vita scorreva abbastanza tranquilla ed erano in buoni rapporti con i loro concittadini cristiani. Non erano ricchi, ma riuscivano a sostenersi con l’artigianato e potevano contare sulla guida del rabbino Malachia Gallico, che assommava in sé le funzioni di medico, rabbino, insegnante e segretario degli affari dei suoi correligionari. In Storia degli ebrei italiani dal XVI al XVIII secolo (2014) di Riccardo Calimani, viene riportato che, nonostante il divieto di giocare a carte ricadesse sia sui cristiani che sugli ebrei, entrambi “si dedicavano senza preoccupazioni a questo passatempo”.
Purtroppo però, nel maggio 1555 salì sul soglio pontificio Papa Paolo IV. Dopo aver fondato l’Inquisizione Romana centralizzata (Congregazione della sacra romana e universale Inquisizione) e aver partecipato al Concilio di Trento, Gian Pietro Carafa , ormai ottantenne, fece affluire il suo zelo antisemita nei primi atti da Pontefice.
Passati due mesi dalla sua elezione, Paolo IV emanò la celeberrima bolla Cum nimis absurdum, con cui limitò pesantemente la libertà degli ebrei e li costrinse a vivere all’interno di appositi Ghetti. Le cose migliorarono solo lievemente con il pontefice successivo, Pio IV, e precipitarono di nuovo con Pio V (1566-1572).
Nel giro di pochi anni la vita modesta, ma dignitosa, degli ebrei di Cori, si tramutò in un vero e proprio inferno. Costretti a vivere solo della vendita di abiti usati, ricevettero il colpo definitivo tramite un’altra bolla papale, la Hebraeorum gens sola quondam a Deo dilecta (1569). In questa, considerata dallo storico Attilio Milano la seconda di tre “bolle infami”, si ordina l’espulsione di tutti gli ebrei dai territori papali, ad esclusione di quelli presenti a Roma e Ancona.
Le decisioni papali di quel periodo relative agli ebrei furono inasprite da una serie di eventi storici di portata prorompente. In primo luogo, la cacciata degli ebrei sefarditi dalla Spagna aveva condotto a un avvicinamento degli ebrei all’Impero Ottomano, ben lieto di accettare le loro capacità commerciali. Alle antiche accuse rivolte agli ebrei (riti satanici, usura, e tutto l’armamentario di credenze e supposizioni che ben conosciamo) si aggiunse quindi quella di collaborazionismo con il nemico ottomano. E in quel periodo quest’ultimo rappresentava il pericolo numero uno per l’Europa, visto che nel 1522 aveva cacciato gli Ospitalieri da Rodi, nel 1526 aveva sconfitto gli ungheresi e nel 1529 aveva assediato Vienna. Nel 1565 era inoltre avvenuto il Grande Assedio di Malta, dove gli Ospitalieri avevano respinto le orde ottomane in uno degli eventi bellici più incredibili del rinascimento.
Ma gli ebrei di Cori non erano rimasti con le mani in mano, e già da tre anni si stavano adoperando per una soluzione alternativa. La proverbiale goccia che fece traboccare il vaso cadde nel 1566, quando un loro concittadino, Abramo di Bezallel, fu massacrato nel sonno dall’oste di una locanda presso cui aveva aveva passato la notte. Dopo un processo farsesco, l’oste fu assolto e liberato. In seguito a questo accadimento, gli ebrei di Cori capirono che forse non sarebbero usciti vivi dalla cortina antisemita calata sullo Stato Pontificio dopo la Controriforma.
E riposero le loro speranze in Yosef Nasi, italianizzato in Giuseppe Nasi.
La vita di questo marrano portoghese, costretto a una vita di peregrinazioni per buona parte dell’Europa, ma che alla fine si era guadagnato le simpatie di Solimano il Magnifico, meriterebbe un intero volume. Per rimanere all’oggetto di questo articolo, basti sottolineare che Giuseppe Nasi fu il primo vero sionista della storia.
Durante la sua permanenza a Venezia, Nasi fu colpito, assieme a tutta la comunità ebraica locale, da un bando di espulsione (1550), e questo lo portò a chiedere al Doge un’isola della laguna per trasferirvisi assieme gli altri. La cosa non andò in porto, e Nasi tenne con sé l’editto di espulsione (assieme all’odio per la Serenissima) per tutta la vita.
Trasferitosi in oriente, le sue capacità politiche lo portarono ad ottennere dal Sultano il permesso di ricostruire le cittadine di Tiberiade e Safed, che nel 1561-1562 versavano in stato di completa rovina, e popolarle con i suoi correligionari cacciati dall’Europa, e in particolar modo dall’Italia.
Nasi rimase sempre molto empatico nei confronti degli ebrei italiani, e mantenne i contatti con le comunità della penisola per tutta la vita. Cercò quindi di far arrivare la notizia del suo progetto a coloro che volessero farne parte.
Nel giro di un anno, Tiberiade fu completamente ricostruita. In New Judea; Jewish life in modern Palestine and Egypt (1919), Benjamin Gordon racconta che Nasi, con l’aiuto della zia Gracia Mendes Nasi, fece piantare a Tiberiade molti gelsi e costruì le filande necessarie alla nascita di un polo “industriale” della seta gestito dagli ebrei. Si circondò inoltre di intellettuali e poeti ebrei per fare in modo che la rinascita di Tiberiade fosse completa anche dal punto di vista culturale. Nel vasto territorio limitrofo alla città si moltiplicarono i giardini e le vigne, mentre nel terreno, da tempo incolto, furono seminati grano, cotone e lino.
La popolazione musulmana delle città più vicine non vide di buon occhio l’arrivo degli Ebrei, anche perché c’era un’antica profezia che recitava: “l’ascesa (la rinascita) di Tiberiade significa la caduta dell’Islam”. Nasi comunque non si perse d’animo. Forte delle sue qualità politiche e organizzative, continuò il suo lavoro.
Le voci dei suoi successi arrivarono in Italia con grande potenza e, dopo il citato omicidio impunito del povero Abramo, la comunità di Cori, di circa duecento individui, decise di aderire al progetto di Nasi. Un’emigrazione in massa però aveva un costo, e gli ebrei di Cori, specie dopo le bolle papali, erano quasi nullatenente.
Il rabbino Malachia Gallico (proveniente da Nepi) decise di accompagnare due membri della comunità a cercare i fondi necessari in quel di Venezia. Si trattava di due importanti capofamiglia, Michele ben Aaron e Giuseppe ben Menachem. I tre portarono con sé una gran quantità di documenti: lettere di raccomandazione di altre comunità (in particolar modo di quella romana), le statistiche finanziarie della comunità di Cori, descrizioni e glorificazioni di Tiberiade e, ovviamente, un libro contabile per mettere nero su bianco le donazioni.
Di seguito troverete l’estratto di uno dei documenti portati dai tre. La traduzione in inglese dell’originale, redatto in ebraico, è contenuta in un vecchio libro di Cecile Roth, The House of Nasi: The Duke of Naxos (1948).
«Ora, quando il lamento della sacra comunità di Cori e la sua tribolazione si sono aggravati e il suo pianto è divenuto pesante, ecco arrivare all’improvviso la voce della venuta di un annunciatore e profeta di pace […] Sì, è arrivato a questi poveri e miserabili Ebrei, impazienti di abbandonare questo esilio, un qualcuno che ha annunciato buone nuove di grazia divina e misericordia […] Il nostro signore Don Giuseppe, cui il Signore Dio ha concesso le terre di Tiberiade, che Dio ha scelto come segno e simbolo della nostra redenzione e della salvezza delle nostre anime […] Secondo la tradizione, gli Ebrei inizialmente ritorneranno a Tiberiade, e saranno trasportati da lì al Tempio […] Nasi ha sborsato soldi di propria tasca e in molti luoghi, come Venezia e Ancona, ha preparato navi e aiuti, in modo da mettere fine ai lamenti dei prigionieri.[…] Abbiamo saputo che molti hanno già effettuato la traversata con l’ausilio delle comunità ebraiche e del menzionato Principe. Ci è stato detto inoltre, che egli cerca in particolar modo Ebrei artigiani, in modo da dare alla colonia delle basi solide…»
Presso la comunità di Ancona, anch’essa molto impoverita, trovarono ulteriori lettere di raccomandazione ma nessun sostegno economico. Sia la Jewish Encyclopedia del 1906 che altre fonti si dicono scettiche sul fatto che l’emigrazione abbia avuto luogo, anche perché ci sono testimonianze di circoncisioni effettuate a Cori nel 1579, lamentele sulla presenza degli ebrei negli anni’80 e addirittura concessioni papali per un banco feneratizio (prestito con interesse).
D’altro canto, sembra plausibile che almeno alcuni degli ebrei di Cori, assieme ad altri ebrei italiani, siano riusciti a raggiungere Tiberiade.
Purtroppo, il sogno di Nasi (divenuto nel frattempo Duca di Nasso) ebbe vita breve. Già nel 1579, dopo due gravi aggressioni delle tribù beduine, la popolazione delle città era calata vistosamente. Probabilmente alcuni tornarono nei loro paesi di origine, mentre altri si unirono alle numerose comunità ebraiche già presenti in Palestina nel XVI secolo.
È probabile che se Nasi avesse impiegato tutte le sue energie nella colonia di Tiberiade, questa avrebbe attirato altre migliaia di ebrei, ma egli preferì dedicarsi, nella parte finale della sua vita, a un’idea ancora più ambiziosa. In un rischioso tentativo di unire l’amore per il suo popolo alla voglia di vendicarsi di Venezia, Nasi spinse gli ottomani a strappare Cipro a Venezia. Era infatti sua intenzione far diventare l’isola una potente colonia ebraica, posizionata in modo strategico e capace di intercettare buona parte degli scambi commerciali fra Oriente e Occidente. Riuscì a contattare gli ebrei di Cipro per convincerli a sollevarsi contro i Veneziani prima dell’arrivo delle armate ottomane, ma il suo piano fu scoperto e i Veneziani espulsero immediatamente gli ebrei da Cipro. Nasi allora incaricò un suo parente, Righetto Marrano, di far saltare in aria l’Arsenale di Venezia, ma questi fu fermato prima di realizzare quella che sarebbe stata un’impresa rocambolesca.
Tornando a Tiberiade, è bene ricordare che la comunità instaurata da Nasi sopravvisse ancora per alcune decadi, visto che in una visita del 1630, Eugene Roger testimoniò la presenza di 12 famiglie ebraiche. Queste ultime fuggirono o rimasero uccise nella distruzione di Tiberiade operata dai Drusi nel 1660.