“Paese che vai usanza che trovi” recita un noto detto a cui neanche gli ebrei sfuggono. Se i precetti sono uguali per tutti, infatti, non è così per alcune tradizioni che non sono codificate, ma che erano o sono tuttora molto popolari. Tra queste, forse le più rilevanti del periodo primaverile sono quelle relative alla fine di Pesach (la Pasqua ebraica che ricorda l’uscita dall’Egitto). La più nota è la Mimouna, la grande festa che i sefarditi di origini nordafricane, in particolare i marocchini, organizzano la sera stessa e il giorno successivo a conclusione degli otto giorni in cui è bandito qualcunque cibo lievitato.
Sulla sua origine ci sono varie teorie: la maggioranza sostiene che il nome si ispiri a Rabbi Maimon, il papà del Rambam (Mosè Maimonide, rabbino e filosofo ebreo di maggior prestigio ed influenza del Medioevo, nato in Spagna nel 1135). Altri sostengono che Mimouna venga dalla parola Emunah che in ebraico vuol dire Fede. Altri ancora le attribuiscono origini pagane che ricordano i rituali per ingraziarsi la dea berbera della fortuna. Una cosa però è certa: oltre a gioire per il ritorno del pane e degli altri alimenti proibiti durante gli otto giorni, è la festa dell’amicizia, della fratellanza e dell’unità. Nei periodi più pacifici, infatti, erano i vicini arabi a portare la farina, il latte e il burro (componenti necessari per preparare la moufleta, una sorta di leggero pancake che viene mangiato intinto nel miele o farcito di marmellata, e che sono assenti nell’alimentazione pasquale poiché è uso degli ebrei marocchini non mangiare neanche i latticini) ed era la sera e il giorno in cui ebrei, musulmani e altre minoranze locali cantavano e ballavano insieme per benedire la primavera e tutto l’anno a seguire.
Numerosi altri particolari legati soprattutto alle varie località si possono facilmente trovare cercando nel web. Ciò su cui invece vale la pena soffermarsi è l’atmosfera che si respira in Israele durante questa particolare serata e la giornata successiva. La ricorrenza, che fino agli anni ’60 veniva celebrata sostanzialmente in famiglia, è diventata in seguito una festa nazionale. Così, oggigiorno vengono organizzate Mimoune nei giardini pubblici e nei centri del Comune alle quali tutti possono partecipare, mangiando, ballando, cantando e provando abiti tradizionali. Ancora più bello ed emozionante è però girare per i quartieri e “farsi invitare” in una o più di quelle familiari. Le porte delle case vengono aperte e chiunque, anche sconosciuto, può entrare e assaggiare un dolcetto o danzare con i proprietari. Succede anche nelle grandi città, come Tel Aviv o Gerusalemme e a volte da familiari queste celebrazioni diventano condominiali o addirittura di quartiere, respirando e vivendo un clima di totale apertura e fiduciosa accoglienza del prossimo.
Un’altra tradizione, questa volta ashkenazita e quasi unicamente culinaria è la preparazione della challah (il pane che si mangia il sabato prima e durante i pasti principali) a forma di chiave oppure usando la solita sagoma e inserendo all’interno una chiave. La si fa per lo Shabbat successivo alla fine di Pesach e si chiama “Schlissel challah”, poiché Schlissel in yiddish vuol dire appunto “chiave”. Anche in questo caso pare che le origini siano non ebraiche e legate ad un uso cristiano preso a sua volta da costumi pagani anteriori, ma ha assunto nell’ambiente ashkenazita un significato simbolico e di buon auspicio: dopo i quarant’anni passati nel deserto mangiando la manna, il popolo cominciò a lavorare guadagnandosi il pane autonomamente. La chiave starebbe quindi a significare l’apertura della porta ad un anno prospero e di indipendenza economica. Anche questo è un uso che si è diffuso negli ultimi decenni e oggigiorno è stato adottato anche da molti ebrei sefarditi e italiani.
Infine un’ultima tradizione che al contrario è andata perduta, ma che è stata “immortalata” in un sonetto in giudaico romanesco che Salvatore Fornari scrisse nel 1979 in ricordo dei tempi lontani, è quella dell’”Ariecchelo”: alla fine della Festività tutto il ghetto,nonostante le restrizioni imposte dai papi, usciva in festa innalzando in trionfo il pane infilzato su bastoni e gridando con gioia appunto “ariecchelo”: “Feniti l’otto delle mazzotti pe’ gghette comenzava un gran bavelle. Bidoni, barattelli e scudelle co’ strilli e canti, mortaretti e botti. Pane ‘nfilato sopr’a li bastoni annanz’e areto tutt’in alegria ‘Ariecchelo che benedetto sia!’ strillando da ‘l fenestri dai portoni. ‘A sera, quanno s’arevè da Scola e s’avvicina l’ora d’anna’ a cena ‘o pane che ciaspetta ce fa gola. Penza, perché achlamo la mazzà pe’ tutt’ ‘na settimana semprì in pena …. ma stasera pane, sale e berachà”. Conclusi gli otto giorni di Pesach in cui si mangia mazzà, il pane azzimo, per il ghetto cominciava una gran confusione…. La sera quando si esce dal Tempio e si avvicina l’ora di andare a cena, il pane che ci aspetta ci fa gola. Pensa, perché mangiamo la mazzà per un’intera settimana, sempre in pena. Ma questa sera pane, sale e benedizione.