Gli attentati di Parigi del gennaio 2015 al settimanale satirico “Charlie Hedbo” e al supermercato kosher, e di novembre scorso al Bataclan, gli stupri da parte di musulmani nella notte di Capodanno in Germania, Svezia, Finlandia, e altri Paesi europei, il duplice attentato di Bruxelles dei giorni scorsi. L’Europa, invasa dai migranti, scopre l’emergenza estremismo islamico. E per la prima volta la denuncia è diretta e si “osa” citare il “terrorismo islamico”. Una parola tabù, accuratamente evitata per mesi, sin dal novembre scorso dai principali leader mondiali. All’indomani delle stragi parigine il Papa parlò genericamente di “folle violenza terroristica”, la cancelliera tedesca Angela Merkel definì gli attacchi “evidentemente terroristici”, il segretario delle Nazioni Unite, Ban Ki Moon espresse “la condanna per i disprezzabili attentati di Parigi”. Il presidente italiano, Sergio Mattarella assicurò “il compatto sostegno dell’Italia per debellare la piaga del terrorismo”. Attentati, attacchi, terrorismo. Nessuno osava citare la parola “islamico” nonostante i terroristi sparassero e si facessero esplodere al grido di “Allah Akbar” (Allah è grande), e nonostante le stesse rivendicazioni dell’Isis. Il presidente degli Stati Uniti, Barak Obama, per evitare equivoci, andò oltre, parlando di “un attacco non solo al popolo francese, ma a tutta l’umanità”, e precisando che gli attentati di Parigi “non sono un atto di terrorismo islamico”. Già in precedenza Obama aveva detto: “Non siamo in guerra con l’Islam. Gli estremisti non sono leader religiosi, ma terroristi”…
Oggi, almeno in Europa, la situazione è cambiata. E ci si accorge dell’emergenza terrorismo islamico. E molti governi corrono ai ripari contro l’invasione islamica, chiudendo le frontiere e dichiarando apertamente che non accetteranno profughi musulmani. “Abbiamo perso il controllo della città” ha dichiarato il capo della polizia di Oslo, dove il centralissimo quartiere di Gronland è battuto da pattuglie di islamici radicali che controllano la zona, attaccano chi beve alcool, ragazze che non sono abbastanza vestite o le coppie gay di passaggio. Un quartiere della capitale norvegese che appare più islamico del Marocco o del Qatar. E che dire di Molenbeek, il quartiere-comune di Bruxelles, culla di jihadisti islamici, da dove è partito il commando che ha compiuto le stragi di Parigi. Un quartiere nel quale la polizia non era neppure in grado di entrare.
L’Europa e, più in generale l’Occidente, scopre dunque l’emergenza islamica. Si chiudono le frontiere, gli aeroporti, si annullano partite di calcio, si cancellano feste di carnevale, si vieta l’ingresso nelle piscine ai migranti maschi. In Svezia, dove l’emergenza stupri è arrivata ai massimi livelli, si invitano le donne a non uscire da sole. L’Europa sembra arrendersi. E non serve, per non “offendere” o “urtare” i musulmani, cancellare le recite di Natale, non fare il presepe nelle scuole o togliere i crocifissi dalle aule.
E allora quale carta gioca la comunità internazionale nel tentativo di compiacere gli islamici? La demonizzazione di Israele, salvo poi, colmo dell’ipocrisia, guardare a Israele come esempio nella lotta al terrorismo e nei sistemi di sicurezza.
Ma non basta. Si va oltre. E così, un giorno prima delle stragi di Bruxelles, mentre a Ginevra organizzazioni ebraiche e sostenitori di Israele manifestavano davanti alla sede dell’Onu per le politiche anti-israeliane del massimo organismo internazionale, il Consiglio per i Diritti Umani (Unhrc), varava , l’ennesimo provvedimento contro Israele decidendo la pubblicazione della lista nera delle aziende israeliane e internazionali che operano direttamente o indirettamente in Cisgiordania, a Gerusalemme Est e sul Golan. Una vera e propria schedatura che riporta alla mente momenti bui della storia contro gli ebrei. La risoluzione, appoggiata dai paesi arabi (passata con 32 sì, 15 astensioni, nessun voto contro) chiede anche alle aziende internazionali di non avere rapporti con le imprese indicate nella lista. Un provvedimento che alla fine andrà a danno dei palestinesi. La Sodastream, entrata nel mirino del movimento antisraeliano Bds, ha già lasciato lo stabilimento di Ma’ale Adumim, in Cisgiordania, trasferendo i suoi impianti nel Negev. Risultato: 900 lavoratori palestinesi hanno perso il posto. Altre sei aziende israeliane, tra le quali la compagnia di cosmetici Ahava, stanno per trasferire i loro stabilimenti. E altri palestinesi perderanno il lavoro.
Ma questo evidentemente alla comunità internazionale non interessa. L’obiettivo è colpire Israele. E lo ha ammesso, in pratica, il presidente statunitense Barak Obama. Parlando la settimana scorsa a un forum in Argentina, Obama ha detto che “il successo economico di Israele pone difficoltà alla pace in Medio Oriente”. Insomma, se c’è Israele di mezzo, essere all’avanguardia nella scienza, nella tecnologia, nella medicina, è una colpa. Se questo non è antisemitismo…