Il 26 Febbraio sono iniziate in Iran le elezioni sia per il Parlamento (Majlis) che per l’Assemblea degli Esperti, il Consiglio voluto da Khomeini per istituzionalizzare il velayat-e-faqih, la “direzione del giurisperito” che caratterizza la specifica sottomissione della legge civile e penale iraniana ( e della politica) alla valutazione dei faqih, gli esperti della legge coranica sciita. Ciò in attesa dell’arrivo del XII Imam, il Nascosto, che sancirà la fine dei tempi e la conversione universale allo sciismo. Solo Lui può fare davvero le leggi, e quindi gli “esperti” controllano la affinità delle norme a quelle che saranno poi sancite dall’ultimo Sovrano, l’Ultimo Imam, discendente di Alì come i suoi predecessori.
Stante questo dato teologico e esoterico, che non può mai essere dimenticato, il Consiglio degli Esperti è, dal punto di vista organizzativo e politico, formato da 88 mujtahid, teologi e quindi esperti di legge coranica, che hanno il dovere, oltre che di discutere la direzione politica del Paese, di eleggere il Capo Supremo della Repubblica Islamica, il Rahbar. Il Consiglio degli Esperti deve riunirsi almeno per due giorni ogni sei mesi. Il Capo Supremo è peraltro molto più potente del Presidente eletto dal popolo e nomina i dirigenti dell’intelligence, del mondo militare, dei Guardiani della Rivoluzione, della banca centrale, dei principali ruoli della Pubblica Amministrazione.
Questa elezione era stata programmata per il 2014, ma è stata rimandata di ben due anni per tenere la sua elezione in contemporanea con quella del Majlis, il Parlamento. Il Consiglio, che ne ha il potere costituzionale, ha cassato almeno l’80% dei candidati, ovvero tutte le donne e il nipote di Khomeini, Hassan. Se tutto va secondo le previsioni, questo Consiglio dei Guardiani è cruciale, perché dovrebbe eleggere l’erede dell’attuale Rahbar, Alì Khamenei.
A Teheran sono stati assegnati 16 posti per il Consiglio, mentre per altre aree si va da 6 a 1, che è il posto assegnato a province come, per esempio, quella di Bushehr, dove si trova il più antico e principale sito nucleare. Il Consiglio degli Esperti elegge il nuovo Capo Supremo con la maggioranza dei due terzi dei membri, l’Assemblea, il Majlis, elegge il Presidente. L’Assemblea Legislativa è composta da 290 membri, 285 direttamente eletti e i rimamenti cinque riservati per le minoranze ammesse: gli zoroastriani, gli ebrei, i cristiani caldei, assiri e armeni. I collegi elettorali sono 196, sia maggioritari e per un singolo eletto, sia proporzionali. Nei collegi maggioritari occorre, per essere eletti, che il candidato raggiunga almeno un terzo dei voti al primo turno. Se ciò accade, al secondo turno la scelta è tra i due candidati meglio posizionatisi. Nei seggi proporzionali, gli elettori possono dare tante preferenze quanti sono i posti disponibili per il collegio. Per essere eletti occorre ricevere almeno un terzo dei voti validi, come nei seggi uninominali. Se non tutti i seggi sono stati aggiudicati, al secondo turno, nei seggi proporzionali, le elezioni si terranno con un numero doppio di candidati rispetto ai seggi disponibili.
Fin qui le regole, che sono essenziali per comprendere il dato politico di queste doppie elezioni in Iran. I primari partiti in lizza sono ben 12. Tutti fervidamente islamisti. La coalizione più ampia sembra quella dei “Principalisti”, che riunisce sei gruppi politici. Il candidato all’Assemblea è Gholam Ali Haddad-Adel. Già presidente del majlis, ha una formazione filosofica sia occidentale che sciita di alto profilo e non è un chierico, un faqih. E’ stato membro del parlamento per ben tredici anni e per quattro elezioni ed è stato sostenuto dalla Abadgaran, la coalizione di vari partiti e associazioni che ha espresso, nel 2004, Mahmoud Ahmadinedjad. E’, da anni, uno dei consiglieri più ascoltati di Ali Khamenei ed ha corso per le elezioni presidenziali del Luglio 2013, senza particolare successo. Una candidatura di alto profilo personale, ma di assoluta fedeltà allo status quo.
La “Coalizione dei Riformisti”, formata da quattro partiti, si riconosce nella candidatura di Mohammed Reza Aref. Un fedele collaboratore di Khatami, ingegnere elettrico, Ph.D. a Stanford, ha rifiutato un posto nel governo offertogli da Rouhani per dedicarsi alla attività politica. E’ l’unico candidato riformista che può vincere. Ma le prospettive politiche sono oggi imprevedibili, in Iran: gran parte della pubblica opinione che chiameremmo, in termini occidentali, “riformista”, collega il miglioramento delle condizioni economiche ad un miglior clima tra Teheran e l’Occidente; ma il fronte “conservatore” (altro termine improprio che usiamo per lo spazio politico iraniano) si fa forte della sostanziale ambiguità dell’accordo JCPOA concluso tra l’Iran e il P5+1 per tematizzare il nazionalismo religioso-politico caratteristico della Repubblica Islamica. Se si gioca la carta nazional-religiosa, che è quella più accettata dai ceti popolari, i riformisti perderanno, magari di misura ma perderanno.
La “Coalizione della Voce del Popolo” è collegata alla candidatura di Ali Motahari. Un “liberalconservatore”, come si è definito, ed è figlio di un importante faqih, Morteza Motahari, che fu il fondatore, su ordine di Khomeini, di cui era allievo e collaboratore durante il periodo dello Shah, del “Consiglio della Rivoluzione dell’Iran”. Fu assassinato dai Mujahiddin del Popolo iraniani nel 1979. Furono i Mujahiddin che rivelarono, nel 2002, l’esistenza del programma nucleare iraniano, tra l’altro. Motahari, il candidato, è cugino dell’attuale presidente del parlamento Ali Larjani, che è stato uno dei più attenti negoziatori del nucleare iraniano con il P5+1; ed è un ferocissimo critico di Ahmadinedjad. La “Coalizione del Risveglio Islamico” porta come candidato Shahab od-Din Sadr. Tre volte parlamentare eletto a Teheran, è di professione medico.
Le previsioni sono per ora vaghe, ma il 28% degli elettori iraniani sostiene candidati “moderati”, il che vuol dire dei politici che accettano il JCPOA senza però una qualche diminutio capitis nazionale e, soprattutto, vogliono utilizzare il nuovo clima internazionale per rimettere in piedi l’economia iraniana, che è visto come tema primario dal 58% degli elettori. Il 24% dei votanti iraniani vorrebbe un programma politico in continuità con quello di Ahmadinedjad. Ovvero, nazionalismo islamico, rifiuto del JCPOA e quello che, sempre con gli impropri termini politici occidentali, chiameremmo “populismo”. Se una parte dei voti della coalizione moderata si aggiunge al 24% dei nostalgici di Ahmadinedjad, allora il tenue filo del rapporto con l’Occidente si rompe e la soluzione geoeconomica non può che essere un legame più stretto con la Federazione Russa e con la Cina, mentre aumentano le probabilità di uno scontro armato o di una guerra a bassa intensità con l’Arabia Saudita e i suoi alleati sunniti.
Il 13% e il 23% sono le previsioni di voto per i riformisti e i seguaci di Haddad-Adel. In totale, il 41% voterà per i candidati legati a Rafsanjani e Hassan Rouhani, l’attuale presidente, di area riformista-moderata. Il JCPOA sarà sostenuto dal governo, quindi ma con molte attenzioni e qualche probabile colpo di coda. Reza Aref, Haddad-Adel Mohammed Reza Aref e Ali Mohtahari sono i candidati più popolari nell’area di Teheran e dei collegi più popolosi. Se gli elettori voteranno per l’intera lista dei riformisti e non per i singoli partiti e candidati che la compongono, essi vincerebbero a man bassa. Se invece la lista dei “principalisti” di Haddad-Adel si presentasse unita, con tutti i partiti che la compongono che collaborano tra di loro senza concorrenza elettorale, allora i seguaci di Haddad-Adel vincerebbero più di 80 seggi.
Un risultato quindi altamente imprevedibile, che riguarderà direttamente l’accordo sul nucleare e che, infine, sancirà una polarizzazione tra “riformisti” e “conservatori”, usiamo ancora le improprie categorie occidentali che bloccherà il sistema politico, con i risultati che possiamo immaginare.