Molto probabilmente Mahmoud Abbas sapeva già che la mozione a favore della creazione di uno Stato palestinese, presentata al Consiglio di Sicurezza ONU il 30 dicembre, sarebbe miseramente fallita. La richiesta di adesione alla Corte Penale Internazionale, per denunciare i presunti crimini di guerra commessi dall’esercito israeliano a Gaza, non deve essere letta come un evento eccezionale e fuori dal percorso intrapreso dal presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese negli ultimi 10 anni circa.
Come già alcuni attenti osservatori internazionali hanno fatto notare, la strada indicata da Abbas è quella di procedere per atti unilaterali che permettano ai palestinesi di ottenere ciò che vogliono senza gravarsi di impegni nei confronti dello Stato d’Israele: il riconoscimento come Stato non membro Osservatore permanente presso l’Assemblea ONU, l’ammissione alla Conferenza Generale dell’UNESCO e l’adesione a 18 trattati internazionali sono tutte azioni che non necessitano di un dialogo con la controparte israeliana. Il rifiuto di ogni proposta arrivata al tavolo della ANP nasce dall’indisponibilità dei leaders palestinesi a confrontarsi con la popolazione araba: trattare con Israele significherebbe trattare con il nemico oppressore e concedere qualcosa, implicito in ogni negoziazione, sarebbe difficile da spiegare ad una popolazione che da 67 anni si sente ripetere che Israele è uno Stato illegittimo che li ha derubati della terra di loro proprietà. In questa ottica la richiesta di adesione alla Corte Penale Internazionale è un passo che prova, senza mezzi termini, la volontà di continuare il conflitto: un impegno serio da parte palestinese dovrebbe prevedere accordi bilaterali e soprattutto una esplicita dichiarazione di voler finalmente deporre le armi.
Oltre ad essere quindi una dichiarazione d’intenti, la richiesta dell’Autorità Nazionale Palestinese è una esplicita violazione degli accordi presi sia con Israele sia con la comunità internazionale ad Oslo nel 1993: la famosissima stretta di mano tra Rabin e Arafat fu possibile solo grazie allo scambio di lettere in cui Yasser Arafat, capo dell’Olp, riconosceva formalmente Israele e si impegnava a risolvere il contenzioso con il negoziato, senza violenze né terrorismo, assumendosi la responsabilità di garantire che tutti i palestinesi rispettassero tali principi.
Non è detto che la Corte accetti la richiesta di adesione perché il Trattato di Roma, con cui è stato istituito quest’organo internazionale, prevede che la giurisdizione della stessa si eserciti nel caso di crimini commessi sul territorio di uno Stato parte o da un cittadino di uno Stato parte alla Corte. L’Autorità Nazionale Palestinese non è uno Stato ma un’organismo politico di governo e questo fa sorgere dubbi sulla validità di una sua eventuale accettazione. Inoltre Abbas presiede un governo di unità nazionale di cui fa parte Hamas, riconosciuta come organizzazione terroristica da quasi tutte le istituzioni internazionali.
Proprio a causa di Hamas la richiesta di adesione alla Corte Penale Internazionale potrebbe far scattare un effetto domino che travolgerebbe la stessa ANP. Infatti, una controdenuncia per crimini di guerra da parte israeliana potrebbe portare a provvedimenti contro Hamas e la ANP, sua partner di governo, si ritroverebbe quasi certamente coinvolta a causa delle numerose organizzazioni jihadiste presenti nella West Bank. Molte volte Israele ha denunciato le violazioni di diritto internazionale da parte di Hamas come il lancio di missili su obiettivi civili, l’uso di scudi umani e l’occultamento di armi all’interno di edifici abitati dalla popolazione civile e luoghi di culto.
Lo Stato israeliano del resto è sempre stato restio a farsi imporre diktat e, così come si è opposto alla mozione presentata in seno al Consiglio di Sicurezza, farà di tutto per far sì che anche questa azione venga smorzata fin dall’inizio. Non è la prima volta che l’esercito israeliano viene accusato di crimini di guerra e i vari Presidenti che si sono succeduti hanno sempre risposto alla medesima maniera: Israele è uno stato che rispetta il diritto internazionale e, grazie agli alti standard morali a cui IDF risponde, si riserva il diritto di controllare il proprio esercito in maniera autonoma attraverso inchieste interne. D’altronde è impensabile che un qualsiasi governo decida di dare in pasto ad una corte internazionale i propri soldati che quotidianamente la difendono.
Le forti reazioni israeliane sono probabilmente dovute al fondato timore che Abbas stia cercando in tutti i modi di minare la già precaria stabilità regionale. Dopo la “car intifada”, gli accoltellamenti per le strade di Gerusalemme e le proteste al Monte del Tempio, un’eventuale rifiuto da parte della Corte potrebbe incendiare la piazza palestinese e porre fine alla tregua con Hamas. La perdita di consensi a cui già deve far fronte il leader dell’Autorità Nazionale Palestinese potrebbe ingigantirsi e portare a una situazione simile a quella di Gaza, con i terroristi guidati da Haniyeh già desiderosi di prendere il controllo della West Bank. Dopo l’affermazione dello Stato Islamico in Siria e Iraq, uno Stato palestinese guidato da Hamas significherebbe non solo la condanna ad uno stato di guerra permanente per tutto il Medio Oriente ma anche il definitivo fallimento di tutti gli sforzi di pace effettuati dalla comunità internazionale da 22 anni a questa parte.