I maestri insegnano che le 613 mizvoth (precetti) si dividono in positive, azioni da adempiere, e negative, azioni da non compiere. Le prime sono 248, un numero che i Maestri associano alle membra della persona, come per dire che ognuna delle membra del corpo umano ha il compito di fare una mizvà. Le seconde sono 365, come i giorni dell’anno solare, per affermare che i divieti sono proporzionali ai giorni dell’anno.
Per fare qualche esempio tra le mizvoth positive: il braccio ha la mizvà dei tefillin e così pure la testa, lo shofàr deve essere ascoltato con l’orecchio, la zedakà deve essere fatta con la mano ecc.
E’ indubbio che ogni persona ha la tendenza a dare maggiore importanza a una mizvà piuttosto che a un’altra, semplicemente perché la sente più vicina alla sua sensibilità. In questo non c’è differenza tra un ebreo che sia più osservante o meno osservante. Ci sono alcune mizvoth che sentiamo più vicine a noi. Il pericolo è quello di frammentare il mondo delle mizvoth e di non vederle come un insieme indivisibile che si propone un preciso obiettivo.
Esistono due mizvoth che invece vanno fatte con tutto il corpo. Una per l’uomo e l’altra per la donna. Per l’uomo la mizvà della Sukkà, che implica che l’uomo entri nella Capanna con tutto il corpo, anche se basterebbe che vi entrasse con la sola testa, secondo il principio per cui la testa è la parte importante del corpo e conta come tutto il corpo (lo stesso ragionamento si fa per un neonato che si considera nato a tutti gli effetti se la testa è uscita completamente dall’utero materno).
La donna che a rigore non ha l’obbligo di mettere in pratica la mizvà della Sukkà, ne ha un’altra che comporta la partecipazione di tutto il corpo: l’immersione mensile di tutto il corpo (qui la testa da sola non basta!) nel Mikvè.
A parte l’importanza di una mizvà unificatrice nella quale possa essere in qualche modo ricondotta all’unità l’esperienza delle mizvoth, è lecito chiedersi perché queste due mizvoth hanno il privilegio di coinvolgere tutto il corpo umano.
Penso che sia più immediato capire qual è il senso della Tevilà per la donna: l’immersione e poi l’emersione dal bagno rituale significa per la donna immergersi nelle acque primordiali per uscirne rinata e pura come al momento della sua creazione. Con questo atto la donna ripercorre la storia dell’umanità e si rende portatrice della continuità del genere umano.
La Sukkà ricorda il periodo delle peregrinazioni del popolo ebraico nel deserto quando gli ebrei erano sotto la protezione delle nubi di gloria che lo accompagnavano nel deserto (è questa la spiegazione che dà Rashi e che rappresenta il peshat, il significato letterale del testo della Torà). Sukkot è la festa che segue il giorno di Kippur, giorno della purificazione, è la festa della Torà che chiude il ciclo dell’anno ebraico e che completa il percorso spirituale, sociale e materiale iniziato a Pèsach. Sukkot è anche la festa del raccolto dei prodotti della Terra d’Israele. Il popolo ebraico nasce in Egitto, ma rinasce solo quando entra in Israele dove potrà realizzare pienamente il senso che Hashem ha voluto dare alla vita del popolo e dell’uomo.
La purificazione ha quindi due momenti: uno individuale che tocca ogni singolo e di questo è responsabile in primis la donna, e uno collettivo, la purificazione del popolo, della quale è responsabile soprattutto l’uomo. Il mondo delle mizvoth lascia uno spazio di azione specifico sia alla donna che all’uomo. La complementarietà delle due responsabilità porta alla purificazione dell’umanità, così come è rappresentata da Zaccaria nella sua profezia in cui vede tutte le nazioni salire a Gerusalemme a festeggiare la festa di Sukkot.