Durante le celebrazioni per il nuovo anno il Presidente egiziano Al-Sisi ha tenuto un discorso coraggiosissimo all’università Al-Azhar del Cairo, una delle più importanti sedi teologiche dell’Islam sunnita mondiale. Ad ascoltarlo erano presenti tutte le massime autorità religiose del paese e proprio a loro Al-Sisi si è rivolto pronunciando frasi sorprendenti per un Presidente di uno Stato arabo. Un duro attacco all’ideologia jihadista senza mai incolpare la Umma, la comunità mondiale di fedeli musulmani, una denuncia forte nei confronti di tutti quegli imam che hanno contribuito ad alimentare il senso di distacco che divide l’Islam dal resto del mondo.
Le sue parole evidenziano la volontà di sradicare quella concezione di jihad che ha chiuso in se stesso il mondo islamico riconducendolo alla violenza contro il diverso. L’accusa verso gli imam che, invece di aiutare a discernere fra bene e male, sono stati istigatori di atti violenti è forte: Al-Sisi sembra riconoscere il mostro che alcuni sermoni hanno partorito. Così come riconosce che è proprio il nuovo ruolo che gli imam devono assumere a essere il rimedio al cancro del terrorismo. Una rivoluzione islamica, una rivoluzione dei musulmani per i musulmani, una rivoluzione che porti a diffondere il messaggio di pace contenuto nel Corano e non l’interpretazione della violenza, questione intrinseca a tutti i testi sacri delle religioni monoteiste.
Al-Sisi denuncia il senso di ansia, pericolo e distruzione che l’occidente avverte quando si parla di Islam e ne trova la causa non nella religione ma nell’ideologia, quasi a paragonare il fondamentalismo religioso ai totalitarismi che hanno devastato il mondo lo scorso secolo. Evidentemente il Presidente egiziano deve aver realizzato che l’azione dello Stato non è più abbastanza: non ha senso mettere al bando i partiti religiosi e avviare la nazione a un percorso di secolarizzazione, cosa che ha già fatto, se non si combatte l’ideologia jihadista con un’altra ideologia di senso opposto. Un Islam differente deve essere insegnato nelle scuole religiose e nelle moschee, non basta più condannare il terrorismo quando si è di fronte a una telecamera.
Per combattere gli orrori del fondamentalismo c’è bisogno della voce di tutti i musulmani, non solo per cancellare il pregiudizio che lega l’Islam alle teste mozzate e ai kamikaze, ma anche per coltivare nuove generazioni che integrino la cultura musulmana a quella giudaico-cristiana dell’occidente in modo che ognuno possa imparare dall’altro.
Con queste parole Al-Sisi si è preso un rischio che pochi leaders occidentali avrebbero corso. Lo ha fatto consapevole sia del pericolo per la sua stessa vita (per molto meno Sadat venne assassinato) sia della possibilità che molti tra i presenti l’avrebbero presa come un’imposizione visto che, in molti casi, è lo Stato a finanziarli. Mentre Obama e Cameron ripetono ai loro cittadini che il Califfato non ha nulla di islamico, Al-Sisi crea così il suo manifesto contro lo Stato Islamico e i suoi sostenitori.
Per la prima volta un leader arabo non imputa la causa del terrorismo a Israele, alle vignette offensive, al colonialismo o alle dispute territoriali, ma alle leadership religiose che non hanno fatto nulla per opporsi invitando il mondo musulmano a una vera prima autocritica sui meccanismi interni che lo regolano.
I media di tutto il mondo hanno preferito ignorare o marginalizzare questo evento straordinario oppure hanno scelto di mettere alla berlina il governo egiziano per le sue azioni contro la stampa e i giornalisti di Al Jazeera. Il presidente della più antica nazione musulmana meriterebbe il premio Nobel per la pace solo per aver avuto il coraggio di ribellarsi a quell’Islam che vorrebbe riportarci tutti al Medioevo ma si sa, i giornali vendono di più se in prima pagina c’è del sangue.