Come promesso ieri, ecco la seconda parte della traduzione dell’articolo sugli effetti dell’adesione della ANP alla Corte Penale Internazionale, a cura di Eugene Kontorovich, uscito il 5 Gennaio sul Washington Post.
La Corte Penale Internazionale è prevenuta nei confronti di Israele?
Nel post precedente ho esaminato lo Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale il quale contiene una importante disposizione direttamente designata per colpire Israele.
Ora passiamo alla Corte intesa come istituzione. Sulla scia della svolta palestinese alla Corte Penale Internazionale, diversi commentatori hanno sostenuto che non vi è alcun motivo di pensare che l’istituzione non possa incriminare Israele. Questo è vero. Naturalmente, la Corte ha fatto così poco nei suoi 12 anni di storia che è molto difficile prevedere in maniera fiduciosa quali siano le sue inclinazioni e tendenze. Azioni penali nei confronti di israeliani (cittadini di uno Stato non membro) sarebbero un tipo di attività in cui la Corte non si è mai impegnata senza il consenso del Consiglio di Sicurezza ONU per cui vi sono ancor meno dati a disposizione.
Non c’è motivo di pensare che il Procuratore Generale o il Tribunale siano ansiosi di discutere casi riguardanti Israele e Palestina a causa delle sproporzionate emicranie politiche che questi comportano.
Eppure è lecito ritenere che la Corte sia la sede più impropria per risolvere il conflitto israelo-palestinese. Infatti, anche in assenza di qualsiasi pregiudizio, la Corte è strutturata in modo che essa non sia in grado di fare giustizia in modo equo ed è quindi legittimamente vista come uno strumento dei palestinesi da utilizzare contro Israele. Inoltre, le recenti dichiarazioni del Procuratore Generale sono una preoccupante testimonianza che questo può essere ben disposto a sostituire l’analisi giuridica con la visione standard della comunità internazionale riguardo al conflitto.
Per essere chiari, credo che il risultato più probabile dell’azione palestinese non è un’indagine completa su entrambe le parti, almeno non in tempi brevi. Piuttosto, sto cercando di spiegare perchè i palestinesi vedono nella CPI una buona scommessa – una buona probabilità di aprirsi una strada più che altro. Questo è importante perchè molti illustri giuristi e studiosi non indifferenti alla causa palestinese li hanno avvertiti che hanno più da perdere che da guadagnare dai procedimenti della CPI. Il proseguire su questa strada significa che, evidentemente, hanno fatto un’analisi diversa – quella che cerco di ricostruire qui.
La storia dei precedenti della Corte suggerisce che questa è solo in grado di rendere una giustizia imparziale in un conflitto bilaterale in corso. La corte non è una ben consolidata sede Olimpica di giudizio. Piuttosto si tratta di una debole, conflittuale e naufragante istituzione, afflitta inoltre da profondi imbarazzi che potrebbero influenzare il processo decisionale. Ha portato a termine solo tre casi e due condanne. Recentemente ha visto i suoi due aspetti di più alto profilo – gli unici che coinvolgono Capi di Stato in carica – disintegrarsi. Si tratta delle azioni penali a carico del Presidente del Kenya per violenza elettorale e del Presidente del Sudan Bashir per genocidio. Entrambi i procedimenti sono falliti a causa della persistente e, nel caso del Kenya, scaltra non cooperazione del regime indagato (Nonostante la loro recente volontà di abbracciare la causa della CPI i palestinesi si sono per molto tempo opposti al mandato d’arresto della Corte Penale Internazionale nei confronti di Bashir). La CPI si è dimostrata del tutto incapace di perseguire un’azione penale nei confronti di un regime che non vuole collaborare, soprattutto se si tratta di sistemi autoritari o antidemocratici.
Questo è il motivo per cui i palestinesi si sono rivolti alla Corte Penale Internazionale nonostante gli avvertimenti, anche da parte di loro simpatizzanti, riguardo al fatto che potranno essere soggetti a molteplici procedimenti per crimini di guerra. Il caso Kenyatta ha stabilito le regole del gioco per tutti i paesi che vogliono vanificare i procedimenti della CPI, soprattutto se non hanno paura di subire sanzioni (non sottovaluto l’importanza delle pressioni interne alla base della decisione palestinese ma suppongo che questo non sarebbe stato abbastanza se la stessa leadership avesse pensato di essere anche lontanamente a rischio processo).
Così, mentre il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu ricorda ai palestinesi che devono temere la CPI molto più di quanto non facciano, tutto ciò è puramente teoria. In pratica invece i palestinesi sono a “a prova di giudizio”. In primo luogo perchè la non cooperazione è semplice in posti dove uccidere i “collaborazionisti” è istituzionalizzato. Tutto ciò farà sembrare le testimonianze delle intimidazioni di Kenyatta una leggera gomitata. Nessuno dirà a Gaza: “hey, c’era un lanciarazzi di Hamas qui”.
I palestinesi non potranno essere puniti per mancata cooperazione – così come non lo sono stati il Kenya e il Sudan. Anzi, è probabile che sosterranno di essere uno “Stato occupato” che semplicemente non può cooperare con gli investigatori dato che sono sotto il controllo israeliano. In Israele, invece, uno stormo di ONG si allineerà nel fornire al Procuratore Generale tutto il fango sui presunti misfatti israeliani con molti paesi che aspettano solo l’occasione giusta per imporre sanzioni allo Stato d’Israele.
In breve, a meno che non si attribuisca alla leadership palestinese un eroico altruismo, la loro accettazione della giurisdizione della Corte, nonostante i documentati crimini di guerra, suggerisce che pensano almeno che questa gli apra sistematicamente la strada.
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Qualcuno ha sostenuto che, nonostante il dilagante pregiudizio nei confronti di Israele all’interno delle organizzazioni ONU, non c’è motivo di sospettare la Corte di parzialità visto che è composta di giuristi di tutto il mondo ed è incaricata di agire apoliticamente.
Purtroppo il Procuratore Generale ha già rivelato che le decisioni politiche (cioè le Risoluzioni dell’Assemblea Generale) non saranno separate da quelle legali ma, piuttosto, saranno adottate proprio come norme giuridiche. Nel suo recente memorandum sulla questione della Gaza Freedom Flotilla, il Procuratore Generale ha concluso che, nonostante il completo ritiro israeliano, Gaza è occupata perchè “la comunità internazionale” pensa che sia così. Questa inquietante mossa mina l’indipendenza della CPI importando i giudizi politici dell’Assemblea Generale che vengono sostituiti alle norme giuridiche.
In maniera sconvolgente, il Procuratore Generale sta ignorando le definizioni giuridiche e i precedenti esistenti riguardo la durata “dell’occupazione” inserendo invece conclusioni tratte dalle risoluzioni dell’Assemblea Generale. “Occupazione militare” è un termine legale con definizioni giuridiche. Una di queste è fornita dal Comitato Internazionale della Croce Rossa il cui manuale prevede che:
“L’occupazione cessa quando le forze di occupazione sono allontanate o evacuate dal territorio”
Inoltre, parlare di occupazione senza truppe non è proprio una prima impressione. Nel 2005 la Corte Internazionale di Giustizia ha stabilito che il controllo di alcune zone della Repubblica Democratica del Congo da parte dell’Uganda attraverso milizie alleate non costituisce occupazione, nonostante la significativa influenza dell’Uganda lì; Per estensione il controllo di Gaza da parte di una milizia ostile non può essere considerato come occupazione. Il Procuratore Generale non si è nemmeno disturbato di fare i conti con il precedente della CIG. A dire il vero, nel memorandum sulla Gaza Freedom Flotilla il Procuratore Generale stava semplicemente risolvendo una domanda giurisdizionale preliminare e non aveva bisogno di certezza del diritto.
La pigra sostituzione di conclusioni dell’Assemblea Generale al posto di norme di legge e confronti di casi analoghi è preoccupante ma è senza dubbio incoraggiante per i palestinesi. D’altronde i processi nascono sempre dall’ottimismo fuori luogo di qualcuno.
Traduzione a cura di: Mario Del Monte