Non è ancora chiaro quale sarà la linea politica che l’amministrazione Trump intenderà seguire relativamente a Israele. Le opzioni sono aperte e siamo entrati dentro uno scenario ancora da definire. Il primo incontro a Washington tra il presidente americano e il primo ministro israeliano ha smosso dal suo piedistallo quella che è stata considerata per decenni la soluzione obbligata del conflitto arabo-israeliano, i due stati separati. Non l’ha, come molti frettolosi e tendenziosi commentatori si sono affrettati a dichiarare, archiviata, ma sicuramente gli ha fatto perdere il suo primato dogmatico. Questa è sicuramente una nota positiva. Una onesta sepoltura alla soluzione dei due stati sarebbe la cosa migliore ma è ancora troppo presto per decretarne la morte clinica. Si continuerà così a muoversi intorno al suo capezzale per un’ordinaria manutenzione medica.
Di fatto, la soluzione dei due stati separati è sempre stata una finzione da parte araba, solo una occasione per guadagnare tempo e continuare la battaglia. Gli Accordi di Oslo del ’93-’95 furono un regalo fatto ad Arafat al quale non parve vero di potere essere riabilitato come interlocutore e di uscire dal cono d’ombra della semi irrilevanza politica nel quale si era cacciato dopo la sua adesione all’attacco iracheno nei confronti del Kuwait. Chi lo riabilitò fu il terzetto delle colombe, Yitzakh Rabin, Shimon Peres e Yossi Beilin. Secondo il loro wishful thinking, il terrorismo, un volta che fosse stato messo nelle condizioni di deporre le armi e la violenza e venire responsabilizzato come potenziale nation builder, si sarebbe ammansito e avrebbe cambiato pelle. Risultato? La radicalizzazione dell’odio nei confronti di Israele e il conseguente incremento del terrorismo.
La guerra voluta da Arafat e introdotta in Israele come un cavallo di Troia dal terzetto per la pace il quale credeva di trasformare i lupi in docili agnelli, costò allo stato ebraico, 1,028 vite israeliane a seguito di 5,760 attacchi. Di queste vittime, 450 (il 43,8 %) morirono a causa di attacchi suicidi, una tecnica praticamente ignota prima degli accordi di Oslo. Tale fu il computo fino alla morte di Arafat nel 2004. Nel totale, dalla firma degli accordi alla fine delle seconda intifada, l’8 febbraio del 2005, le vittime israeliane furono 1600 e i feriti 9,000.
Ad Arafat non parve vero potere avere una simile occasione per rivitalizzare il jihad contro Israele offertogli nel cuore stesso dello stato. Quando si giunse agli accordi di Oslo, dopo che quelli di Camp David del 1978 erano stati rigettati dal leader dell’OLP, egli aveva già mostrato da tempo la sua totale inaffidabilità e doppiezza. Da una parte c’erano i discorsi rivolti al pubblico occidentale concepiti per ingraziarsi le sue simpatie, dall’altra quelli in arabo rivolti ai militanti e al popolo palestinese, tra cui spicca il “sermone” tenuto a Johannesburg il 10 maggio del 1994 nel quale Arafat fece esplicito riferimento alla necessità del jihad per liberare Gerusalemme, chiamando a raccolta il mondo islamico e rivendicando la città come primo sito sacro dell’Islam. Fu durante questa concione che paragonò l’accordo raggiunto con lo Stato ebraico a quello istituito nel VII secolo da Maometto con la tribù Quraish per consentirgli di pregare alla Mecca. Nulla più che una “spregevole tregua”, disse Arafat in quella circostanza, citando le parole del Califfo Omar. Infatti, dieci anni dopo, quando Maometto fu abbastanza forte, abrogò l’accordo e sterminò la tribù.
Per Arafat l’accordo firmato a Oslo nel 1993 sulla creazione di una area palestinese autonoma era solo una manovra tattica contingente come fece presente riferendosi alla storia islamica: ‘Noi rispettiamo gli accordi nello stesso modo in cui il Profeta Maometto e Saladino rispettavano gli accordi che firmavano’.
Oggi ci dobbiamo confrontare con uno scenario mediorientale mutato in cui la realtà sul territorio chiama a una risposta diversa. Il relitto ideologico della soluzione dei due stati di cui la rovina di Oslo fa da testimone, si deve confrontare innanzitutto con una diversa determinazione americana la quale sembra avere al primo posto la deterrenza nei confronti del più pericoloso attore regionale, l’Iran. Lo stato sciita è di nuovo confermato sull’agenda americana come il “principale stato sponsor del terrorismo”, sia da parte del Segretario alla Difesa, James Mattis che dell’ambasciatrice all’ONU, Nikki Haley.
La velleitaria e ondivaga politica obamiana in Medioriente ha sortito l’effetto paradossale di riavvicinare ulteriormente gli stati arabi sunniti agli USA in funzione anti-sciita. In questo senso, una collaborazione con Israele quale principale alleato americano nella regione, diventa prioritaria rispetto a un nation building palestinese che da Oslo in poi si è mostrato irrealizzabile.
Al coinvolgimento degli stati arabi sunniti in una ridefinizione del conflitto hanno accennato sia Donald Trump che Benjamin Netanyahu durante la conferenza stampa alla Casa Bianca del 15 febbraio scorso. Che forme possa assumere, se le assumerà, è ancora tutto da vedere, ma quello che appare rilevante è la messa tra parentesi dell’opzione bi-statale come esito scontato da santificare.