Chi segue le elezioni israeliani anche dall’Italia, dove i partiti non mancano – non parliamo degli Stati Uniti e della Gran Bretagna dove sono due o tre – non può che essere un po’ sconcertato. Alle elezioni si presenta senza dubbio, il Likud, il partito di Bibi Netanyahu, cui viene accreditato, nei sondaggi che si succedono quasi quotidianamente, ora un po’ di più ora un po’ di meno di un quarto degli eletti (di solito fra i 28 e 32 parlamentari dell’unica camera, la Knesset, che ha 120 membri). Alla sua destra, la “casa ebraica” dei sionisti religiosi si è divisa in due, con la scissione del leader Bennett e del ministro della giustizia Ayelet Shaked che hanno costituito “La nuova destra”.
Ma vi sono altri due partitini che sono al limite del quorum (3,25%) necessario per avere rappresentanti. Sempre a destra, anche se è uscito dalla coalizione, vi è il partito di Liberman, anch’esso come “casa ebraica” poco sopra (ma a volte sotto) il quorum. Il che significa che c’è il rischio concreto che il 10% del corpo elettorale a destra non abbia rappresentanza.
Vicino al Likud, ma più al centro vi è il partito del ministro dell’economia Kahlon, che dovrebbe farcela. A sinistra è poco sopra al quorum il post-sionista (un eufemismo per dire che non credono allo stato ebraico) Meretz, e anche il vecchio partito laburista, in caduta libera. La sua ex-alleata Tzibi Livni è sotto. Il partito centrista e antireligioso di Lapid perde molto anche lui, ma dovrebbe farcela. Tutti questi voti dispersi dovrebbero andare al nuovo partito del generale Ganz, cui si è associato anche l’ex ministro della difesa Ya’alon. Gli sono attribuiti 20 seggi, circa il 15% dei deputati; ma se come è possibile riuscisse ad attirare Lapid e altri del centro sinistra, potrebbe tentare di superare Netanyahu verso quota 30. Ma il Likud sta reagendo cercando anch’esso di aggregare forze sulla destra. Non si tratta di una competizione a vuoto, perché al leader del partito più forte viene assegnato di solito il primo tentativo per formare la maggioranza di governo.
Oltre a quelli che ho citato, sono in gioco tre partiti arabi, che questa volta forse non riusciranno a fare una lista unitaria, i due partiti religiosi uno askenazita e uno sefardita (più un secondo partito sefardita che non era riuscito a entrare in parlamento alle ultime elezioni) e diversi altri partitini, di cui qualcuno potrebbe anche riuscire a superare il quorum.
La ragione di questa molteplicità, oltre il sistema elettorale proporzionale con collegio unico nazionale e scarsa barriera all’ingresso, che non ha mai consentito in Israele se non governi di coalizione, e al proverbiale gusto ebraico per il dissenso, sta nel fatto che l’asse destra/sinistra rappresenta male gli schieramenti: vi sono distinzioni etniche fra arabi ed ebrei, la differenza fra i settori religiosi e quelli laici, il contrasto fra liberisti e filosocialisti, quello fra chi pensa che la sicurezza del paese si difenda rafforzando gli insediamenti e non crede alle trattative con l’Autorità Palestinese e coloro che pensano esattamente il contrario.
Vi è anche il fatto che Netanyahu, senza dubbio il miglior primo ministro dai tempi di Ben Gurion, è in carica da molto tempo e un po’ l’elettorato si fida di lui e teme di non poter fare a meno della sua esperienza di statista, un po’ ha voglia di cambiamento ed è tentato dalle facce nuove, anche da quella di Ganz, che ha solo esperienza militare e non ha spiegato chiaramente dove vorrebbe guidare Israele nella difficile situazione che lo circonda, ma è prevalentemente percepito come portatore di una visione del mondo di sinistra.
Bisogna aggiungere che queste elezioni sono turbate dall’intervento dei magistrati inquirenti che – ormai sembra sicuro – in piena campagna elettorale incrimineranno Netanyahu per tre accuse che a me, da lontano, sembrano piuttosto assurde. Bibi avrebbe ricevuto da amici imprendiotori dei doni in sigari o champagne dell’ordine delle migliaia di euro in dieci anni; avrebbe discusso con due diversi proprietari di media della possibilità di avere una migliore copertura dell’attività di governo in cambio di favori che di fatto non si sono mai concretizzati. Aggiungete che la moglie è stata accusata di non aver mai contabilizzato i centesimi che riceveva restituendo le bottiglie dell’acqua usata e avete il quadro di un castello d’accusa che – lo ripeto – a me da lontano appare molto pretestuoso e vuoto, ma che è stato pompato con grande energia dalla stampa e dai concorrenti politici.
E’ difficile capire l’effetto che avrà sull’elettorato questa incriminazione annunciata. E ancor più difficile fare previsioni sulle elezioni, ancor prima del consolidamento delle alleanze e della presentazione delle liste.
Ma in Israele tutto può accadere fino all’ultimo; nelle elezioni scorse, Netanyahu era dato per perdente e riuscì a recuperare solo negli ultimi giorni. I sondaggi mostrano un elettorato che non vuole un governo di sinistra o centrosinistra, perché ha capito quanto disastrosa sia stata la linea di Peres (più che di Rabin che la subì) delle cessioni territoriali alle entità terroriste.
I dati economici sono buoni, la posizione internazionale di Israele è la migliore da sempre. Ma i rischi non mancano, dentro e fuori il paese. Dunque le elezioni non sono affatto scontate, implicano una scelta vera. Bisognerà seguirle con molta attenzione e rispetto, sperando che la scelta dell’elettorato rafforzi Israele e gli permetta di affrontare con una guida sicura le sfide che verranno.