La crisi iraniana è ben lungi dall’essere conclusa, ma una cosa è chiara, che l’eliminazione di Soleimani non ha affatto aperto quella crisi mondiale che i nemici di Trump hanno previsto questa volta come per ogni suo atto in Medio Oriente. Ma bisogna fare attenzione a capire le ragioni per cui l’Iran non ha potuto reagire come ha dichiarato e (forse) avrebbe voluto, ma si è dovuto limitare a un’azione poco più che simbolica, senza provocare vittime americane. Ho scritto “forse avrebbe voluto” per tener conto delle voci che sono girate per cui numerosi alti papaveri del regime degli ayatollah non sono rimasti troppo insoddisfatti dell’eliminazione del generale, che dava loro ombra grazie all’appoggio della “guida suprema” Khamenei e all’instancabile campagna di propaganda per se stesso che conduceva, appropriandosi dei “meriti” di tutte le azioni imperialistiche e terroristiche dell’Iran, tanto da essere candidato a prossimo presidente della Repubblica. Le dittature, come si sa, alimentano faide sanguinose nei loro vertici e forse qualche informazione sui movimenti del generale è venuta anche dai suoi avversari politici interni.
Al di là di questo problema, l’Iran non ha reagito per la sua estrema debolezza. Sul piano economico non solo pesano le sanzioni americane, ma vi sono tutti i disagi di un’economia di guerra, che sostiene eserciti in cinque o sei paesi (Yemen, Iraq, Libano, Siria, territori governati da Hamas e dall’Autorità Palestinese), interviene attivamente e costosamente in altri, come Sudan, Baherin, Somalia ecc., alimenta la produzione di missili, armi atomiche, aerei e navi militari ben oltre il ragionevole. E inoltre, come capita di frequente nelle dittature, soprattutto islamiche, vi è un grado di controllo politico sull’economia, e dunque di corruzione, di vera e propria cleptocrazia, che pesa sulla vita di tutti i suoi sudditi in maniera intollerabile. Del resto problemi economici analoghi colpiscono il grande protettore dell’Iran, cioè la Russia di Putin, e la potenza islamica che condivide molti dei suoi atteggiamenti ed è spesso complice delle sue iniziative, anche se strategicamente in concorrenza, cioè la Turchia.
Aggiungeteci un esercito impreparato, nervoso, bugiardo e incapace di assumersi le proprie responsabilità, come è emerso nel criminale abbattimento dell’aereo ucraino e un’opposizione che non si stanca di rifiutare le politiche e l’islamismo degli ayatollah, anche se rischia grande. Le proteste delle donne, dei giovani, delle persone impoverite dalla crisi, di coloro che vogliono la libertà di vivere normalmente senza sottoporsi all’oppressione delle milizie e delle “polizie della virtù” si succedono ininterrottamente, anche se sono represse con estrema violenza, al costo di migliaia di vittime. Se ci fosse una guerra, tutto questo rischierebbe di esplodere, travolgendo il dominio dei preti islamici, che è fragile, anche se ormai quarantennale. Infine è evidente che una guerra con l’America si svolgerebbe sotto forma di bombardamenti sul suolo dell’Iran, e avrebbe l’effetto di distruggere le sue forze armate e il suo regime, per quanto gravi fossero le rappresaglie che gli ayatollah fossero in grado di infliggere ai loro nemici. Solo il possesso della bomba atomica potrebbe permettere agli iraniani di scatenare una guerra con qualche speranza di non uscirne travolti e distrutti. E questa è una delle ragioni per cui è imperativo impedire che l’atomica iraniana sia costruita, come Israele ripete ormai da molti anni.
E però bisogna fare attenzione: questi fatti non annullano affatto la minaccia iraniana, non trasformano la dittatura sciita in una tigre di carta, come qualcuno ha scritto. La minaccia resta in piedi ed è grave, per due ragioni militari e una politica. La prima è che l’Iran può continuare ad agire col terrorismo e soprattutto grazie alla rete di mercenari e fantocci che soprattutto Soleimani ha contribuito a creare in tutto il Medio Oriente: Hamas, Hezbollah, Houthi, l’esercito siriano, le milizie sciite in Siria e Iraq, le opposizioni in Bahrein e altri paesi del Golfo e infine le sue stesse “guardie rivoluzionarie”che agiscono con tecniche da guerriglia, per esempio contro le petroliere negli stretti. Non c’è dubbio che gli ayatollah continueranno a foraggiarle e a dirigerle ed esse continueranno a sfidare la legalità internazionale.
La seconda ragione emerge dalle immagini del bombardamento delle basi americane, che alcuni hanno definito “telefonato”, perché sembra sia stato anticipato alcune ore prima agli iracheni che hanno avvertito gli americani. Sia stato così o meno, dalle immagini satellitari emerge che i missili iraniani hanno penetrato la difesa antimissile americana e hanno colpito con notevole precisioni, provocando gravi danni a strutture che, per fortuna o per calcolo, erano state evacuate. Insomma, le basi americane si sono mostrate altrettanto vulnerabile della grande raffineria saudita che era stata colpita alcune settimane fa da un attacco analogo. E’ probabile, come qualcuno ha sostenuto, che queste basi non fossero difese bene come il quartier generale americano nel Golfo, che ha sede in Qatar, me ci sono ragioni sufficienti per allarmare i militari Usa e soprattutto Israele, che essendo un paese e non una base ha moltissimi obiettivi sensibili, quante sono le città, gli impianti industriali, gli aeroporti, le infrastrutture energetiche e dell’acqua ecc. Non è detto che i sistemi antimissile come Iron Dome e David’s Sling siano in grado di neutralizzare completamente un attacco anche piuttosto limitato come quello che ha colpito gli americani. Insomma gli iraniani non possono vincere una guerra, ma possono fare danni gravi, se non sono neutralizzati in tempo. Il che suggerisce l’opportunità, di fronte a una crisi, di una guerra preventiva; ma non è detto che Israele possa reggerla da solo e certamente Trump non ha la minima voglia di una guerra vera e propria in un anno elettorale.
E qui viene la ragione politica che sostiene in questo momento la minaccia iraniana. Come si è visto la settimana scorsa, i democratici americani hanno rinunciato al tradizionale atteggiamento patriottico, per cui l’opposizione negli Stati Uniti tradizionalmente evita accuratamente di indebolire il presidente quando egli si prende la responsabilità di difendere il paese sul piano militare. Chiamatela come volete, tradimento o spirito di parte o prudenza, ma è evidente che i democratici e la stampa che essi controllano, compresi gli “autorevolissimi” New York Times, Washington Post e CNN, sull’eliminazione di Soleimani si sono schierati più dalla parte dell’Iran che del loro paese, come del resto ha fatto un bel pezzo di Unione Europea. Questa volta, come in genere nella sua politica estera, Trump si è mostrato un abilissimo tattico, ben diverso dal pasticcione che i media tentano di accreditare. Ed è evidente che ha vinto lui questa partita. Ma senza la solidarietà nazionale che è tradizione dell’America è chiaro che le sue mosse debbano essere calcolate con grande prudenza, il che rafforza notevolmente la posizione politica e militare dei nemici degli Usa e in particolare dell’Iran.
Insomma, la partita è aperta ed è delicatissima, soprattutto per Israele. Dove esiste anche un’opposizione che indebolisce la capacità di reazione del paese, con l’aggravante che non si tratta di un partito del Parlamento, ma di un apparato dello stato, quello della giustizia incentrato del procuratore generale Mandelblit, che a quanto pare negli ultimi mesi ha già bloccato operazioni militari sia a Gaza che in Siria, per il sospetto che avrebbero influito sulla campagna elettorale. Possiamo solo sperare che sia Trump che Netanyahu riescano a svolgere il loro lavoro e a impedire l’armamento atomico dell’Iran, raggiungibile a quento pare in un paio di mesi di lavoro, anche in queste difficili condizioni.