Normalmente c’è una certa distanza fra governanti e killer. Ministri e membri dell’élite politica possono talvolta essere coinvolti in crimini economici, essere corrotti, evasori, bancarottieri; altre volte può capitare di trovare nei governi personaggi che hanno molestato sessualmente in maniera più o meno grave delle donne.
Ma in genere non accade che i rappresentanti di uno stato siano sospettatati di crimini di sangue.
Può accadere solo nel caso di movimenti terroristi che si sono recentemente impadroniti di uno stato e hanno trasferito direttamente la loro dirigenza militare in ruoli di governo; è capitato per esempio negli anni scorsi coi talebani, ma intorno a questi stati vi è una tacita ma chiarissima cintura di sicurezza: nessun paese civile accetta di avere a che fare con questi stati, salvo quelli che vi sono obbligati per gli strascichi del conflitto.
A questa regola vi è però una rilevante eccezione ed è l’Iran. Gli ayatollah si sono impadroniti del potere quarantatré anni fa, nel ‘79 e l’hanno fatto per mezzo di una rivolta di piazza, non di una guerriglia terrorista, ma non hanno mai accettato il principio di legalità nelle relazioni interne e soprattutto internazionali, hanno continuato a dirottare navi, abbattere aerei commerciali, compiere attentati contro obiettivi civili come singoli imprenditori, diplomatici, turiti.
Per non parlare naturalmente della guerriglia e delle rivolte che hanno alimentato in Siria, Libano, Yemen, Bahrein, Arabia Saudita e soprattutto contro Israele. Questa commistione fra criminalità comune, mani sporche di sangue e governo non è mai cessata, ma era molto evidente durante la presidenza di Mahmud Ahmadinejad (2005-2013) e lo è di nuovo da quando un anno fa la presidenza dell’Iran è stata assunta da Ebrahim Raisi, lui stesso soprannominato “il macellaio” per il suo coinvolgimento diretto in numerosi casi di tortura, quand’era capo della magistratura iraniana, e anche nella repressione del movimento studentesco.
Un altro caso particolarmente rilevante è quello del ministro dell’interno Ahmad Vahidi, generale dei Guardiani della rivoluzione e già ministro della Difesa sotto Ahmadinedjad, accusato di aver direttamente organizzato numerosi attentati sanguinosi, fra cui quello terribile del centro ebraico di Buenos Aires, quando era a capo delle brigate al-Quds dei pasdaran.
Erano le 9.58 del 18 luglio 1994 quando un furgone carico di tritolo esplose nel parcheggio seminterrato dell’edificio ospitante gli uffici dell’Associazione Mutualità Israelita Argentina (AMIA) e della Delegazione delle associazioni israelite argentine.
L’edificio crollò causando 85 vittime e oltre 200 feriti. Fu probabilmente la più grave strage antisemita dopo la caduta del nazismo. Ormai è sicuro che essa fu organizzata dagli Hezbollah su commissione e sotto il controll0 delle guardia rivoluzionarie iraniane.
Quel che interessa molto è che secondo le indagini dei pubblici ministeri argentini, molto contrastate dai governanti peronisti che si sono succedute da allora, nell’organizzazione della strage ebbe un ruolo importante Il ministro degli Esteri israniano Hossein Amir Abdollahian, diplomatico molto vicino al Corpo dei guardiani della rivoluzione, sostenitore della dottrina della “resistenza” che si esplicita nel sostegno a Bashar al-Assad in Siria e a Hezbollah in Libano.
Nei giorni scorsi infatti Abdollahian ha fatto visita in Italia, la prima in un Paese europeo dalla sua entrata in carica lo scorso agosto 2021, ricevuto molto cordialmente dal nostro ministro degli esteri Di Maio. Vale la pena di leggere con attenzione i messaggi pubblici scambiati dalle due parti.
Il ministro degli Esteri iraniano in un messaggio su Twitter diffuso ha scritto che l’incontro ha affrontato le grandi potenzialità economiche dei due Paesi, in particolare nel settore dell’energia. “Ho incontrato il mio omologo italiano, Luigi Di Maio, a Roma. Ho discusso con lui una serie di questioni bilaterali, regionali e internazionali. Abbiamo convenuto che le nostre enormi capacità economiche, in particolare nel settore dell’energia, promettono un futuro radioso per la nostra cooperazione reciprocamente vantaggiosa”.
In una nota della Farnesina si sottolinea invece come durante l’incontro il ministro Di Maio abbia “innanzitutto rappresentato al ministro Amirabdollahian la volontà di alimentare un dialogo ampio e franco anche con l’obiettivo di favorire la condivisione di posizioni costruttive sul piano regionale e internazionale”.
Il responsabile della Farnesina ha ribadito il fermo incoraggiamento a chiudere senza ulteriore indugio il negoziato per il ripristino del Piano d’azione congiunto globale (Jcpoa) quale contributo alla stabilità e sicurezza regionali, oltre che condizione essenziale per il rilancio della collaborazione bilaterale in ambito economico e culturale. Di Maio ha espresso l’auspicio di una normalizzazione delle relazioni fra i Paesi dell’area, ribadendo al suo omologo come solo attraverso il dialogo e la collaborazione si possano creare le condizioni per un progressivo miglioramento della cornice di sicurezza.
Insomma, al di là del nebuloso frasario diplomatico, l’Italia si propone come interlocutore privilegiato dell’Iran in Europa (di cui è già il primo partner commerciale) e come sostenitrice senza esitazioni della ripresa del vecchio accordo di Obama, così fallimentare da essere stato abbandonato da Trump.
Fra Di Maio e Amir Abdollahian non si è parlato né del suo passato terrorista, né dell’impareialismo attuale dell’Iran, di quel che fa in Siria e in Yemen, della pirateria nel Golfo Persico, della guerra clandestina contro Israele e dell’appoggio all’invasione russa dell’Ucraina. Non è vero dunque che sempre intorno ai ministri criminali i paesi civili innalzino una barriera di sicurezza. Basta che siano abbastanza potenti e forniti di petrolio.