Il Presidente israeliano Reuven Rivlin ha tenuto un discorso al Muro Occidentale di Gerusalemme per commemorare Yom Hazikaron, il giorno in cui gli ebrei ricordano le vittime del terrorismo e della guerra, in particolare i soldati morti per difendere la patria. Un commento su una delle date più importanti del calendario ebraico non può mancare su Progetto Dreyfus e chi meglio della massima autorità israeliana può esprimere il significato di questa giornata? Vi proponiamo il suo discorso tradotto in italiano.
Oggi siamo qui tutti insieme a cercare conforto dinnanzi a delle pietre silenziose. Pietre che hanno migliaia di anni e che hanno assorbito le lacrime del nostro popolo, siano esse di gioia o di dolore. Un muro fatto di lutti e speranza. Il compito più duro che che la carica di Presidente dello Stato mi ha elargito è essere in presenza delle famiglie delle vittime durante i loro momenti di dolore e tragedia, guardarli mentre agonizzano nel pianto. La scorsa estate ho viaggiato per tutto il paese. Ho visitato le case dei nostri cari e splendidi ragazzi caduti per difenderci durante l’Operazione Protective Edge. Ho imparato che la geografia della sofferenza ha allungato le distanze nel paese ma non lo ha diviso. La morte ha bussato alla porta di tanti noncurante del loro credo religioso, nessun posto è stato immune da essa. Ho visto i figli dei kibbutz, degli insediamenti, dei villaggi e delle città, ebrei e non ebrei, soldati soli e nuovi immigrati.
Ho avuto modo di conoscerli quando era troppo tardi. Li ho conosciuti quando erano già scomparsi. Li ho visti ridere nei filmati e nelle fotografie di famiglia, li ho visti abbracciare i loro fratelli, tenere per mano le loro ragazze rimaste ora prive dei loro legami d’amore. Credo che con alcuni di loro avrei discusso e dibattuto su alcuni argomenti. Con altri avrei ascoltato della musica, parlato di leadership o di calcio. Ricordo dolorosamente come uno dei padri in lutto mi disse che quando aveva sentito i passi alla porta aspettò a chiamare sua moglie per darle solo un momento prima di diventare una “madre di un defunto”. Lo stesso padre che mi chiese in lacrime come avrebbe dovuto rispondere da quel momento alla domanda “quanti figli hai?” Questa estate ho imparato quanto è palpabile quel vuoto che nessuna quantità di nostalgia può riempire.
Care famiglie, non molto tempo fa ho incontrato un padre il cui figlio è caduto in battaglia nella Striscia di Gaza circa vent’anni fa. Ha condiviso con me i suoi pensieri su questa giornata, Yom Hazikaron. Mi disse: “Non temo questo giorno, considero il suo significato. Ogni anno parlano a noi, le famiglie delle vittime, di tristezza e perdite incolmabili. Noi non abbiamo bisogno che ci ricordino queste dolorose nozioni. Le portiamo dentro ogni giorno e ogni notte. In questo giorno dobbiamo rivolgerci all’intera società israeliana parlando di auto-riflessione per il futuro, di costruire la speranza. Solo così il loro sacrificio non sarà vano.”
Cari amici, cittadini israeliani. E’ la richiesta di questo padre che vi chiedo di onorare oggi. Le storie delle famiglie in lutto si intrecciano in un destino comune e forzato. La società israeliana, in tutti i suoi campi, è connessa non solo in termini di destino condiviso ma anche negli scopi e nel significato. Yom Hazikaron è il giorno in cui noi tutti ci riuniamo nella tenda del lutto nazionale, apriamo i tabernacoli del terribile dolore e rilasciamo i nostri desideri repressi. Come possiamo scendere a patti con noi stessi,con il ricordo dei nostri cari, e accettare che ci sia un solo giorno all’anno per concentrarci sul dolore e sulla sofferenza? Stasera piangiamo per il destino dei nostri figli e figlie. Eppure, allo stesso tempo, come facciamo a stare davanti alle loro tombe, come possiamo pensare ai figli che non potranno avere o a quelli rimasti orfani se non consideriamo il significato, lo scopo del loro sacrificio?
Cari amici, è giusto ciò che ha scritto Yigal Alon:” i giovani di Israele, l’esercito, dovrebbero essere addestrati ad odiare la guerra e allo stesso tempo far baldoria in battaglia quando esplode.” Vivere in questa terra concretizza due aspirazioni come popolo e come società. La prima si basa sulla nostra vitale lotta per la sopravvivenza e per l’esistenza dello Stato d’Israele. La seconda è radicata nella lotta per l’essenza e l’idea per cui Israele è stato fondato. Non siamo il popolo della guerra, i nostri figli non si scagliano in battaglia assetati di sangue. Né durante questa estate né in quelle che, Dio non voglia, verranno in seguito. Ci hanno costretto alla necessità di combattere e per i nostri figli è stato decretato che essi continueranno a portare le armi per difendere i nostri confini, le nostre case, l’impresa che abbiamo realizzato qui.
La lotta per la sopravvivenza non pone scelte. Il nostro obbligo, per noi e per i nostri figli e nipoti, è di essere sicuri di fare qualsiasi cosa in nostro potere per prevenire la prossima guerra. Al fine di chiarire ai nostri nemici che se sceglieranno di farci la guerra noi resisteremo forti come abbiamo sempre fatto. Insieme a questo dobbiamo guardare la realtà attuale e assicurarci che stiamo facendo di tutto per per essere pronti e preparati per un prossimo conflitto. La realtà della nostra vita pone una grande sfida all’esercito, ai suoi comandanti e ai suoi soldati: preservare la professionalità, l’eccellenza etica di tutto l’esercito, dal grado più basso a quello più alto. Una guerra nella guerra per lo nostre forze di sicurezza. Una guerra in cui ogni notte i nostri soldati ritornano alle loro basi dopo battaglie senza nome che allontanano un prossimo conflitto e ci rendono più preparati per ciò che verrà.
Questo è il nostro obbligo nei confronti di chi è caduto. Prometteremo sempre che, sebbene non accetteremo mai questo destino, siamo pronti a pagare il prezzo delle nostra esistenza. Questa realtà a cui siamo costretti non deve indurci ad accettare il sacrificio, anche se riconosciamo sia necessario. In mezzo a questa tensione siamo obbligati a continuare a vivere per il bene dei nostri cari che abbiamo perso e per quello dei nostri figli che sono ancora qui.
Cari amici, la seconda aspirazione con cui abbiamo a che fare oggi è la lotta per l’essenza e l’idea per cui lo Stato d’Israele è stato fondato e per cui i nostri figli sono caduti. Hanno vissuto per amare la vita, per creare, per essere autori, poeti, scienziati, contadini, il meglio del meglio dei nostri figli, hanno dato le loro vite non per farci meramente sopravvivere ma per farci vivere. Le pagine della storia del popolo ebraico sono piene di difficoltà e persecuzioni, di esili e pogrom. Solo una settimana fa ricordavamo i martiri e gli eroi dell’Olocausto. Siamo stati perseguitati e siamo sopravvissuti, siamo stati espulsi e siamo sopravvissuti, hanno provato a sradicarci dalla faccia della Terra e siamo sopravvissuti.
Eppure per il popolo ebraico la sola sopravvivenza non è mai stata sufficiente e mai lo sarà. Il DNA di questa nazione è fatto di fede e creatività. Insistiamo sulla sopravvivenza perché crediamo nella vita, perché crediamo nella visione di essere una società libera in cui convivono tradizione e innovazione. Una società che trova la creatività nelle sue contraddizioni e nei suoi contrasti, che educa i suoi bambini all’amore per il prossimo e alla responsabilità condivisa lungo la strada verso il successo. Una società che non accetta compromessi sulla realizzazione dei suoi valori anche di fronte a una realtà complessa e difficile.
Dalle ceneri siamo risorti. Oltre le tombe dei nostri figli, fratelli, genitori e amici siamo risaliti dalla miseria e dalla disperazione e ora abbiamo fede e speranza a guidarci sulla nostra strada. Continueremo a riflettere sulla nostra immagine, sui nostri valori e sul futuro nel loro nome e nel nome di quelli che verranno. Una profonda riflessione alla ricerca della nostra anima. Non per la diplomazia, non per la comunità internazionale, ma qui fra noi, fra le famiglie che compongono lo Stato d’Israele. Così abbiamo fatto nel 1948 e così faremo oggi. La morte di chi ha difeso le nostre case ci obbliga ad intensificare il nostro impegno per la costruzione di questa casa: una casa giusta e compassionevole in cui non solo coloro che sono caduti ma tutti coloro che la abitano sono egualmente importanti. Questo è il nostro debito nei confronti delle loro gesta eroiche e della vite che sono andate perse.
Care famiglie in lutto, ogni notte mi sdraio nel mio letto e miei pensieri sono con voi, con i figli che non ci sono più. Piango in silenzio per voi, come disse re David al figlio Absalom “vorrei fossi morto per te.”
Possa la memoria dei nostri figli, fratelli e sorelle, essere incisa nei nostri cuori per sempre. Possano le loro anime essere legate nel vincolo della vita.