Nelle ultime due settimane, una serie di fatti importanti ha testimoniato dell’ottimo inserimento di Israele in politica internazionale. Il più importante di tutti, naturalmente, è il lancio della proposta di pace da parte di Trump, un piano che nei fatti viene incontro come non è mai accaduto prima alle esigenze di sicurezza di Israele. Un secondo fatto, simbolicamente anche più eminente, è stata la presenza di una cinquantina di capi di stato e di governo alla commemorazione del settantacinquesimo anniversario della liberazione dei prigionieri del campo di Auschwitz. Il fatto che la cerimonia si sia svolta a Gerusalemme e che sia stata gestita dalla massime autorità dello stato ebraico è un segno importante di riconoscimento – implicitamente anche del riconoscimento della città come capitale dello stato. C’è stata poi la grazia e la liberazione di Naama Issachar, una ragazza israelo-americana detenuta in Russia per essere stata trovata, durante un transito aeroportuale, in possesso di una piccola quantità di marijuana. Naama è stata liberata in seguito a un pressante intervento di Netanyahu, a seguito dei colloqui che il primo ministro israeliano ha avuto col presidente russo per consolidare la loro intesa dopo la presentazione del piano americano. C’è stato poi il viaggio di Netanyahu in Africa, il quinto nel continente in meno di tre anni, che oltre a consolidare e estendere i rapporti con i paesi subsahariani, è stata anche l’occasione di un incontro con il leader del Sudan, paese arabo una volta del tutto connesso con la rete terrorista islamista, che ha accettato di normalizzare i rapporti diplomatici con Israele. E c’è stata anche la notizia della possibile apertura dell’ambasciata della Bolivia (altro paese già molto ostile) a Gerusalemme; e sono anche emersi incontri fra rappresentanti di Israele e degli Emirati per una normalizzazione dei rapporti, che si vedrà già in maniera evidentissima con la presenza di Israele all’Expo di Dubai; e ancora prima l’accordo con Grecia e Cipro per un gasdotto sottomarino che porterà in Europa il prodotto delle perforazioni del mediterraneo orientale, per lo più israeliane, modificando profondamente il quadro strategico di questa indispensabile fornitura.
Queste iniziative diplomatiche (cui corrispondono numerosi episodi militari che rafforzano la deterrenza di Israele in Medio Oriente) sono stati presentati da alcuni come “regali elettorali” a Netanyahu, in vista del voto che avverrà a inizio marzo. Ma è una sciocchezza: piuttosto sono risultati che Netanyahu ha ottenuto con uno straordinario lavoro decennale: solo gli ultimi, perché andando indietro si potrebbe parlare del riconoscimento di Gerusalemme, dell’incontro con il sovrano dell’Oman, della collaborazione con l’Egitto e l’Arabia: insomma di una crescita costante e veramente straordinaria della posizione diplomatica di Israele. Che tutto questo progresso sia legato alla figura di Netanyahu è chiarissimo ed è in qualche modo confermato anche dalla calunnia del regalo: che leader al mondo sarebbe capace di ottenere regali politici dall’America e dalla Russia, dal mondo arabo e un po’ da tutti i leader che sono convenuti il 27 gennaio a Gerusalemme?
Che poi come spesso capita questi risultati siano offuscati dalla rivalità personale, purtroppo fa parte delle logiche politiche in tutto il mondo. Ma Israele si trova di fronte a un’opportunità straordinaria: approfittare del piano Trump per far riconoscere e dunque consolidare la propria sovranità sugli insediamenti nelle zone storiche di Giudea e Samaria, dove vivono mezzo milioni di israeliani e sulle rive del Giordano, confine di sicurezza essenziale nei confronti delle minacce islamiste che vengono dall’Est. Il rischio è che questa opportunità vada sprecata, pur di eliminare dalla vita politica Netanyahu. A impedire l’estensione della legge israeliana su questi territori (che nel quadro giuridico israeliano si può fare con un semplice atto di governo, senza bisogno di una legge) sembra sia il procuratore generale Mandelblit, colui che ha costruito contro Netanyahu una rete di accuse “inconsistenti, che estendono il reato di corruzione in una maniera che non è mai stata accettata da un tribunale, né in Israele né in altri paesi democratici”: così spiega Alan Dershowitz, il grande avvocato ebreo americano: la ragione è che nei contatti che Netanyahu ha avuto con gli editori di alcuni mass media, nessun accordo è stato stretto e non è nemmeno mai stato prospettato un vantaggio economico per Netanyahu, che semplicemente ha sentito delle persone influenti per sentire che azioni politiche avrebbero potuto rendere meno aspra l’opposizione di questi media – un tipo di sondaggio che i politici di tutto il mondo fanno spesso con forze economiche e sociali. Sembra che Mandelblit si opponga, senza che la legge lo prescriva, a qualunque azione del governo in proroga, che dura ormai da un anno, che non sia la più ordinaria delle amministrazioni.
Ancora più grave è la notizia, ormai molto consolidata, di un accordo già stretto fra il partito “Kahol- lavan” di Gantz, il principale oppositore di Netanyahu, con l’estrema sinistra che si presenta unita alle elezioni, con Lieberman, che pur presentandosi come un nazionalista ha respinto e sottovalutato il piano di Trump e soprattutto con i partiti arabi federati, che essendo imparentati a vario titolo ai movimenti palestinisti di Ramallah e di Gaza, naturalmente respingono il piano e le sue conseguenze. Per dare a Gantz la maggioranza che non raggiungerebbe mai senza di loro, è chiaro che i partiti arabi pretenderanno la rinuncia al piano Trump – questo sì un regalo elettorale. C’è dunque il serio pericolo che per una serie di vendette personali, Israele perda un’occasione storica.