Non so davvero cosa possano inventarsi i detrattori dello Stato d’Israele ora che l’unione dei partiti arabi è divenuta la terza forza politica del Paese. Con 14 seggi alla Knesset, la Joint List (in ebraico HaReshima HaMeshutefet) ha dimostrato che in Israele – con le armi della democrazia – tutto è possibile. Il listone arabo è composto dall’unione di quattro partiti: Chadash, Balad, Lista Araba Unita e Taal. Ognuno di questi, basandosi sulle esperienze pregresse, non avrebbe verosimilmente superato la soglia di sbarramento, aumentata di 1,25 punti rispetto alle elezioni precedenti, o quantomeno avrebbe fatto molta fatica; la strategia vincente di mettersi insieme è stata dettata de facto dalle decisioni parlamentari di modificare la legge elettorale, dando così alla componente araba della Knesset l’input per formare una coalizione dieci volte più influente di quanto non lo fossero i singoli partiti nella scorsa legislatura.
Che sia stata una mossa dettata soltanto dai numeri si può facilmente evincere dalla ampia differenza di approcci e di vedute tra un partito e l’altro. Vi sono infatti socialisti e comunisti particolarmente attenti alla politica economica e ai diritti dei lavoratori, nazionalisti arabi neanche troppo moderati e sostenitori della cooperazione arabo-ebraica; chi appoggia la soluzione due Stati per due popoli e chi uno Stato binazionale; chi crede nel dialogo e chi nella lotta armata; personaggi che vedono nel seggio alla Knesset l’opportunità di combattere il “nemico sionista” dall’interno. Nel calderone vi è quindi uno spaccato della società arabo-israeliana, che tiene fuori però due importanti categorie: gli arabi che si sentono profondamente integrati nella società israeliana, quelli che credono nello Stato e apprezzano le libertà che Israele garantisce a tutti i cittadini e gli arabi che chiedono a gran voce ai propri fratelli di non candidarsi alle elezioni per non legittimare in tal modo l’esistenza stessa dello Stato ebraico. Difficile ora prevedere quali ruoli saranno assegnati alla Joint List e come le componenti di questa riusciranno ad abbattere le profonde differenze interne, ma una certezza c’è, ed è la bandiera della democrazia israeliana che sventola alta sui cieli del Medio Oriente.
Una democrazia difficile, non sempre conveniente, spesso controproducente. Una democrazia che permette di sedere in Parlamento anche a chi quell’istituzione vorrebbe distruggerla, anche a personaggi che invocano la lotta armata contro lo Stato e giustificano attacchi terroristici contro i civili. Civili come loro. Ed è grazie a questa libertà che quella fetta di arabi fieri di essere israeliani, si sente fortunata e non cambierebbe la propria nazionalità con nessun’altra al mondo: perché si gira e vede i fratelli palestinesi del West Bank, che non votano dal 2006, come anche i fratelli gazawi. Poi sposta lo sguardo a sud e vede che in Egitto il Parlamento non è attivo dal 2012; la Siria è governata dalla dinastia Assad dal 1970, mentre in Libano dal 2013 le elezioni vengono rinviate e se saranno fortunati potranno votare nel 2017; non va meglio negli altri Paesi arabi come lo Yemen, dove possono votare soltanto i musulmani o in Arabia Saudita dove il potere politico e quello religioso sono nelle mani di una monarchia assoluta; in Iran non vi sono diritti umani e nella maggior parte degli Stati arabi o islamici i gay sono costretti a nascondersi.
Per questo la stessa vittoria degli arabi è l’arma con cui Israele può combattere le menzogne e costringere chi l’accusa di praticare l’Apartheid di piegare la testa in segno di vergogna.