In questi giorni in molti si chiedono quali effetti avrà l’adesione allo Statuto di Roma da parte dell’Autorità Nazionale Palestinese. Il Washington Post ha chiesto un parere a Eugene Kontorovich, professore esperto di diritto internazionale della Northwestern University School of Law, sul perchè di questa azzardata mossa diplomatica e sulle conseguenze che porterà. Il post è diviso in due parti, oggi vi proponiamo la prima tradotta in italiano.
I palestinesi cercano di sfruttare la “disposizione Israele” della CPI
L’Autorità Nazionale Palestinese sta cercando di aderire alla Corte Penale Internazionale come stato membro per denunciare una serie di crimini di guerra israeliani avvenuti durante le operazioni militari a Gaza la scorsa estate e per la politica degli insediamenti. Molti internazionalisti sostengono che questa mossa (a lungo chiamata “l’opzione nucleare palestinese”) non sia aggressiva e che sia Israele che gli Stati Uniti non dovrebbero essere preoccupati. La motivazione è che i tribunali internazionali sono strumenti della giustizia, non c’è niente di cui opporsi.
In una serie di post considererò ciò che Israele può aspettarsi dalla Corte. Innanzitutto bisogna rilevare che l’adesione alla Corte Penale Internazionale difficilmente può essere vista come un grande passo avanti per il diritto internazionale in quanto si tratta di una violazione di due specifici impegni presi dai palestinesi negli accordi di Oslo: non cercare il raggiungimento di uno status finale fuori dai negoziati e dare la giurisdizione esclusiva a Israele riguardo ai suoi cittadini nei territori. Gli accordi di Oslo erano un accordo internazionalmente garantito perciò si può dire che l’azione verso la CPI nasce già in una situazione di illegalità.
Cosa ha fatto Oslo per i palestinesi è una domanda dalla risposta un po’ scontata, la vera risposta però è che ha dato loro governo e autodisciplina e gli ha spianato la strada verso la richiesta di uno Stato e verso la partecipazione alla Corte Penale Internazionale. In altre parole, la richiesta alla CPI non è il risultato di ciò che i palestinesi non hanno ottenuto dagli accordi di Oslo ma, piuttosto, di quello che invece hanno conseguito. In effetti i palestinesi continuano a rivendicare diritti sotto l’egida degli accordi di Oslo, come ad esempio il trasferimento di fondi da parte di Israele, suggerendo che considerano il trattato ancora vincolante.
Passiamo ora alla Corte stessa. Lo statuto fondativo della Corte (lo Statuto di Roma) contiene una disposizione progettata specificamente per colpire Israele. Vale la pena rivederne la storia: L’elaborata definizione di crimini di guerra presente nello Statuto di Roma (art.8) viene già citata dalle Convenzioni di Ginevra e da altri trattati correlati – perchè inventarne una nuova? In occasione della conferenza di redazione del 1999 un gruppo di Stati arabi si è assicurato un cambiamento significativo, all’interno dello Statuto di Roma, della disposizione corrispondente all’articolo 49 della Quarta Convenzione di Ginevra vietando alla Potenza Occupante di “deportare o trasferire la sua popolazione civile all’interno di territori occupati”. Era strano armeggiare con questa disposizione visto che non aveva avuto nessun utilizzo nella sua storia, nè in corti internazionali nè in quelle nazionali.
Gli Stati arabi hanno prevalso nelle trattative e hanno ottenuto che nella disposizione sia vietato “direttamente o indirettamente deportare o trasferire” (all’inizio avevano chiesto un linguaggio ancor più ampio). Ovviamente in giurisprudenza la differenza tra effetti diretti e indiretti è notevole. Il linguaggio dello Statuto di Roma non ha nessun precedente o parallelo nel diritto internazionale ed è stato generalmente inteso come un tentativo di andare oltre le Convenzioni di Ginevra per comprendere anche le migrazioni di israeliani in Cisgiordania (e in quel momento anche Gaza). Questo articolo è stato progettato per rendere la “facilitazione” un crimine – cioè di trasformare il divieto negativo sul trasferimento in un nuovo e strano obbligo positivo al governo per scoraggiare e impedire ai suoi cittadini di migrare in un territorio sotto il suo controllo.
In questo modo si può dire che lo Statuto era fin dal principio creato per colpire Israele (questo è abbastanza evidente dal nuovo linguaggio degli autori), l’unica nazione ad essere così onorata. L’idea che la disposizione è stata concepita per punire Israele è ulteriormente supportata dall’esperienza di Cipro, stato membro fin dall’origine dello Statuto di Roma. Quando la Corte Penale Internazionale è nata nel 2002 nessuno ha neanche ipotizzato che la Turchia avrebbe potuto rispondere per la sua enorme impresa di insediamenti nel nord occupato dell’isola. Infatti da allora l’attività di insediamento dei turchi è invece accelerata. Anche dopo la denuncia, da parte di rifugiati ciprioti e di un deputato del Parlamento Europeo, alla CPI avvenuta lo scorso anno nessuna azione è stata intrapresa. Se la Corte dovesse indagare riguardo agli insediamenti israeliani (nonostante gli ostacoli giurisdizionali di cui discuteremo nel prossimo post) ignorando invece quelli turchi, dove è presente un arretrato di competenza di 12 anni, priverebbe il procedimento di qualsiasi legittimità. E nessuno pensa che una misura nei confronti dei funzionari turchi sia probabile.
Inoltre, il fatto che un gruppo di Stati arabi (tra cui, ironia della sorte, il Marocco, autore forse della più grande impresa di colonizzazione nel Sahara Occidentale, di cui i palestinesi a volte si sono fatti sostenitori) ha ampliato la disposizione dimostra che questi hanno capito quanto il linguaggio delle Convenzioni di Ginevra non si adatti ai diversi modelli di migrazione ebraica in Cisgiordania ( i quali comprendono i progetti sostenuti dal governo, l’acquisto da parte di privati, i beni appartenuti ad ebrei prima del 1949, avamposti costruiti in spregio ai regolamenti governativi e così via).
A dire il vero, la Corte potrebbe, in ultima analisi, interpretare la disposizione dello Statuto di Roma come del tutto congruente a quella delle Convenzioni di Ginevra, a sua volta ancora mai interpretata. Israele, però, non vuole far da cavia all’interpretazione di una norma progettata esclusivamente per esso.
La disposizione contenuta nelle Convenzioni di Ginevra, per inciso, è stata progettata per proteggere il territorio occupato da radicali cambiamenti demografici (quelli che i procedimenti di Norimberga chiamano “obliterare il precedente carattere nazionale di questi territori”). La riscrittura di questa disposizione per la CPI è infedele a tale politica in quanto è difficile effettuare cambiamenti demografici radicali attraverso mera facilitazione.
Gli insediamenti israeliani non si sono neanche lontanamente avvicinati ad effettuare un tale cambiamento; dopo quasi cinque decenni i coloni rimangono una piccola frazione (meno del 10%) della popolazione totale nei territori che i palestinesi affermano siano occupati. Infatti, l’ascesa demografica palestinese, non solo nei territori ma anche tra il fiume e il mare, smentisce l’idea di cambiamento demografico radicale. Nella parte occupata di Cipro, invece, i coloni hanno raggiunto una importante svolta demografica costituendo ora circa la metà della popolazione. Se la Corte fosse interessata a precedenti sul caso degli insediamenti questo dovrebbe costituire il logico punto di partenza ma non scommetterei su questo.
Prossimo post: cosa possiamo imparare dalle azioni della Corte?
Traduzione a cura di: Mario Del Monte