Può l’arte rappresentare l’irrappresentabile? All’indomani della Shoah filosofi, registi, artisti e storici hanno cercato di rispondere a questa domanda, che ha dato vita ad un dibattito nel cinema, e ancora oggi anima intellettuali e critici cinematografici.
La storia contemporanea è costellata di polemiche e dibattiti su registi e film che hanno messo in scena l’orrore della Shoah. Memorabile la polemica scatenata dal regista e critico francese Jacques Rivette che definì “abietto” il carrello di Gillo Pontecorvo, in Kapò, sul volto di una donna che muore toccando il filo spinato. Il regista Claude Lanzmann, autore dell’opera monumentale Shoah, si scagliò contro Steven Spielberg, che tra l’altro “osò” rappresentare le camere a gas in Schindler’s List. Anche all’indomani del Premio Oscar a Roberto Benigni per La vita è bella, molta critica internazionale si volse contro il regista che aveva cercato la poesia dove non c’era neanche un barlume di umanità.
La tensione a rappresentare la Shoah è stata molto spesso messa in discussione, soprattutto da parte di molti storici che non riconoscono nel cinema di finzione una fonte, poiché esso attraverso il montaggio e la parzialità del piano di ripresa opera necessariamente una irriducibile manipolazione. Nella filmografia sulla Shoah esistono opere che hanno segnato il tempo e si sono distinte per aver raccontato storie che prescindono da un’istanza realistica, ponendo al centro del discorso filmico lo sguardo dell’autore che è riuscito, in alcuni casi, a rendere e a rivelare allo spettatore alcuni aspetti dell’immensa tragedia del ‘900.
Ci soffermeremo su due film che sono in questi giorni nelle sale italiane: opere fondamentali che danno un importante contributo al discorso del cinema sulla Shoah. “Il figlio di Saul” di László Nemes, presentato a Cannes e fresco di Golden Globe, è la storia di Saul Ausländer, che fa parte del Sonderkommando di Auschwitz, ovvero il gruppo di deportati ebrei costretti dai nazisti ad assisterli nello sterminio e nello “smaltimento” dei corpi degli altri prigionieri. Mentre lavora nella camera a gas nel recupero dei “pezzi” (come i nazisti chiamavano i corpi degli ebrei), Saul (interpretato dal magnifico poeta e attore Géza Röhrig) si imbatte in un ragazzo in agonia, poi finito da un medico nazista. Saul crede, forse, di riconoscere nel ragazzo suo figlio e decide di dargli una sepoltura e di trovare un rabbino che possa recitare il Kaddish (la preghiera ebraica per i morti). Nel film la macchina da presa è puntata sul protagonista, e tutto l’inferno che lo circonda, come i corpi delle vittime, i forni crematori, i roghi appiccati dai nazisti per smaltire velocemente i cadaveri, è fuori fuoco. Non vediamo nitidamente, dunque, l’orrore del campo, ma lo intuiamo attraverso il suono, i rumori, le immagini che si alternano intorno alla figura del protagonista, immerso nella sua ricerca: il percorso di Saul, che tenta disperatamente di trovare un rabbino per la sepoltura diviene l’ultimo atto di umanità nel meccanismo di disumanizzazione e morte. Non sappiamo se quel ragazzo è suo figlio, né se Saul veramente lo crede essere tale, ciò diviene un dettaglio. La potenza del film sta nella scelta dell’autore/regista di sottrarre nitidezza alla “macchina della morte”, nel rifiuto programmatico a rappresentare l’orrore, e nel racconto del processo di umanizzazione di Saul.
Il labirinto del silenzio di Giulio Ricciarelli, candidato agli Oscar come miglior film in lingua straniera, è ambientato nella Germania del dopoguerra, della ripresa economica, ed è il primo film che affronta la rimozione e la presa di coscienza dei crimini nazisti e della Shoah da parte di un intero Paese. E’ il 1958 quando il giovane magistrato tedesco Johann Radmann viene a sapere che un ex ufficiale delle SS lavora come docente in una scuola. Così inizia un’indagine senza fine, una caccia ai criminali nazisti per consegnarli alla giustizia, malgrado le resistenze dei suoi colleghi e superiori. Un labirinto apparentemente infinito nel quale il protagonista prende coscienza progressivamente, insieme allo spettatore, dell’efferatezza e delle dimensioni dei crimini nazisti. Anche in questo film non vediamo né ascoltiamo le vicende dei sopravvissuti, intuiamo l’orrore nelle espressioni e nelle reazioni di chi le ascolta. Nessun flashback, nessuna immagine dei campi di sterminio. La volontaria omissione dell’autore-regista anche nel caso di questo straordinario film vuole raccontarci qualcos’altro: non abbiamo bisogno di vedere corpi delle povere vittime o di ascoltare le atrocità che hanno subito i sopravvissuti. Assistiamo però al valore della testimonianza, pur non conoscendone i contenuti.
In entrambi i film, molto diversi tra loro oltre che per la storia anche per lo stile (Il figlio di Saul è girato con la steadicam, mentre Il labirinto del silenzio usa un linguaggio “classico”) c’è il superamento dell’istanza realistica, c’è la poetica della rinuncia alla rappresentazione della “morte a lavoro”.
Negli ultimi anni sono molti i giovani registi che decidono di misurarsi con il tema della Shoah. Segno che anche al cinema la parola passa alla seconda e terza generazione, che non avendo vissuto sulla sua pelle la Shoah potrà raccontarla chiudendo l’obiettivo sull’orrore e facendosi portatore della testimonianza.