Dopo quasi dodici anni di cura Hamas, la Striscia di Gaza si trova in una condizione estrema con il 70% della popolazione che dipende dai sussidi assistenziali e il 60% che si arrangia con meno di due dollari al giorno. Ogni mese Hamas raccoglie circa 28 milioni di dollari in tasse dai residenti della Striscia. Una parte cospicua delle tasse raccolte viene utilizzata per i salari dei membri dell’organizzazione mentre un’altra parte viene utilizzata per la fabbricazione di razzi e tunnel. Da quando, nel 2007 Hamas prese il potere a Gaza estromettendo Fatah dal suo controllo, si calcola che sia stato investito qualcosa come un miliardo di dollari nella infrastruttura militare, fondi che avrebbero sensibilmente contribuito a sollevare dai disagi la popolazione dell’enclave costiera, ma le priorità sono state altre. Le recenti manifestazioni di piazza a Gaza contro il gruppo jihadista, costola palestinese dei Fratelli Musulmani, sono state represse con la violenza.
La stampa internazionale ne ha parlato poco, evitando di amplificare troppo la cosa, visto che non poteva essere incolpato Israele. La favola nera della colpa israeliana per la condizione disastrosa della Striscia, interamente imputabile a Hamas, è una delle più inossidabili della propaganda contro lo Stato ebraico, nonostante l’evidenza sia lì, chiara e nitida a smentirla. L’embargo israeliano ed egiziano sulla Striscia è infatti limitato non ai beni di prima necessità, ma a materiali che potrebbero essere utilizzati per la costruzione di tunnel e soprattutto per evitare l’ingresso di armi a fini terroristici.
Nell’anniversario della cosiddetta Marcia del Ritorno, la manifestazione inscenata da Hamas l’anno scorso il 30 marzo allo scopo di rilanciarsi dopo essere caduto in un cono d’ombra, copertura ideale per tentare di sabotare la barriera divisoria di confine tra Israele e Gaza, l’organizzazione terroristica si prepara nuovamente a calamitare su di sé l’attenzione internazionale. Israele è all’erta, e alla viglia delle elezioni nazionali che si terranno il 9 aprile prossimo, ha cospicuamente militarizzato la zona.
La realtà, nella sua brutalità, conferma ciò che è ovvio. Hamas sopravvive in virtù dei finanziamenti che prevengono dal Qatar, con l’approvazione di Israele, e da quelli che gli vengono dall’Iran. La presa sulla Striscia è garantita da un regime che si basa sulla minaccia, la delazione, la violenza, la pubblica e sommaria esecuzione di chi viene accusato di essere una spia sionista. L’unico obiettivo che ha il gruppo è quello di continuare a mantenere il potere cercando di rappresentarsi come l’avanguardia della resistenza all’”occupazione” israeliana, occupazione, che per Hamas, riguarda l’intera area geografica su cui sorge Israele, come specificato dal suo Statuto del 1988, in cui è scritto che la Palestina tutta è una perenne dotazione islamica.
Risolvere il problema Hamas, per Israele significherebbe prendere possesso nuovamente della Striscia lasciata definitivamente nel 2005, cosa che, evidentemente non è nel suo interesse. Dunque si procede in un circolo vizioso in cui Hamas colpisce, Israele risponde, si giunge a una tregua momentanea, Hamas ottiene i fondi per andare avanti, e poi si ricomincia.
E’ questa la ragione per la quale lo scorso novembre, il Ministro della Difesa, Avigdor Lieberman, si dimise dal gabinetto Netanyahu, dopo l’ennesima escalation con Hamas, perché avrebbe voluto da parte di Israele una maggiore risolutezza nella gestione del problema. Il che non significa, necessariamente, la rioccupazione di Gaza, con un costo molto alto dal punto di vista militare, ma una più incisiva azione, intesa a distruggere una buona volta per tutte le infrastrutture militari e soprattutto eliminare i vertici dell’organizzazione.
Nessuna guerra è stata mai vinta senza la resa o la capitolazione dell’avversario.