L’Egitto ci sta lavorando da mesi, ma l’annunciata riconciliazione tra Hamas, il movimento estremista che controlla dal 2007 la Striscia di Gaza, e Fatah, il partito del presidente palestinese Abu Mazen, che sembrava ormai fatta, è in realtà ancora decisamente lontana, viste le rispettive posizioni non conciliabili. E per Israele, in ogni caso, non si vedono prospettive positive.
Di riconciliazione fra le due fazioni palestinesi se ne parla da tempo e per fare chiarezza vediamo di riassumere giusto le ultime tappe. Il 17 settembre scorso Hamas aveva emesso un comunicato nel quale affermava di voler rispondere “agli sforzi dell’Egitto, che riflettono il desiderio egiziano di chiudere con le divisioni e di ottenere una riconciliazione per ottenere l’unità nazionale“. Hamas si era detto pronto alla riconciliazione con al Fatah, dicendosi altresì disposto a dare via libera a elezioni generali e alla possibilità di un governo di unità nazionale.
Altra tappa di riavvicinamento il 3 ottobre quando l’Autorità Nazionale Palestinese era tornata ad assumere la gestione amministrativa della Striscia di Gaza, con tanto di visita ufficiale del premier palestinese Rami Hamdallah.
Il 12 ottobre, dopo due giorni di colloqui al Cairo, con la mediazione dell’Egitto, la firma dell’accordo di riconciliazione, annunciato con una dichiarazione ufficiale dal leader di Hamas, Ismail Haniyeh: «Fatah e Hamas hanno raggiunto un accordo all’alba, grazie alla generosa mediazione egiziana».
Si va avanti. Il primo novembre, rispettando le intese sottoscritte, la consegna, presenti funzionari egiziani, dei valichi di frontiera di Rafah con l’Egitto e di Erez e Kerem Shalom con Israele, da parte di Hamas all’Anp, con rimozione delle postazioni di Hamas e ripristino della Palestine Bank, che era chiusa da anni. Cerimonia ripresa dalle televisioni, sorrisi e strette di mano tra rappresentanti delle due fazioni.
E siamo al primo dicembre, quando avrebbero dovuto diventare operativi altri punti dell’intesa, con l’annullamento delle sanzioni dell’Anp nei confronti di Hamas, tra le quali il razionamento dell’energia elettrica e la sospensione di trasferimenti di denaro dall’Anp ad Hamas. Ma a bloccare l’accordo, rimangono alcune questioni di fondamentale importanza per le due fazioni: Hamas si rifiuta di consegnare le armi all’Anp e non accetta la collaborazione tra Anp e Israele sulla sicurezza in Cisgiordania.
Tutto dunque si ferma. In una nota, Hamas accusa l’Anp di non rispettare i termini dell’accordo: “Noi domandiamo che il governo del primo ministro Rami Hamdallah si assuma in pieno le sue responsabilità e rimuova le ingiuste sanzioni imposte sul nostro popolo a Gaza“. L’Anp, da parte sua, commenta come “irresponsabile” la dichiarazione dei dirigenti di Hamas. Con il risultato che l’intesa diventa impossibile, e le due fazioni si accusano a vicenda del mancato rispetto degli accordi. Per cercare di ricucire la nuova frattura, le parti concordano di rivedersi il 10 dicembre al Cairo per un nuovo round di colloqui. Ma che probabilmente non produrranno nulla viste le divergenze di fondo.
Fatta luce sulla storia recente, ricordiamo brevemente che da oltre 10 anni la Striscia di Gaza è sotto il controllo di Hamas, movimento legato ai Fratelli musulmani e considerato gruppo terrorista da Stati Uniti, Unione Europea e Israele. Fatah ha perso il controllo di quei territori dopo una sanguinosa guerra civile tra palestinesi nei mesi di maggio e giugno 2007.
Detto questo, vogliamo precisare subito che la riconciliazione fra Hamas e Fatah, che avvenga o no, non comporterà nulla di positivo per Israele. Hamas continua a ribadire che mai riconoscerà lo Stato di Israele, Fatah, nonostante le sollecitazioni dell’amministrazione Trump a non pagare più le famiglie dei terroristi, continua e continuerà a farlo. Abu Mazen lo ha ribadito ufficialmente, rendendo di fatto impossibile una trattativa di pace con Israele. Del resto il premier israeliano Benyamin Netanyahu si è detto totalmente pessimista: “La riconciliazione tra Fatah e Hamas rende la pace più difficile da raggiungere – ha scritto in un post su Facebook -. Israele si oppone ad ogni riconciliazione nella quale l’organizzazione terroristica di Hamas non deponga le armi e non metta fine alla sua guerra per distruggere Israele“.
In questo quadro, ad infiammare la situazione, arrivano le minacce dei palestinesi, di dare vita a una nuova intifada, se gli Stati Uniti, come ha annunciato il presidente Trump, trasferiranno la propria ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme, riconoscendola come capitale di Israele. Una decisione che sta mettendo in subbuglio il mondo arabo e non solo.