Nel 2011 feci un viaggio a Mauthausen, Ebensee e Gusen, tre campi di sterminio nazisti in Austria. L’esperienza fu paradossalmente più dura della visita ad Auschwitz Birenau, dove perse la vita parte della mia famiglia. La mamma e le sorelle di mio nonno, deportate davanti ai suoi occhi il 16 ottobre del ’43 a Roma e uccise nelle camere a gas in Polonia. A rendere i campi in Austria più difficili da visitare fu la presenza di un sopravvissuto, Mario Limentani detto il Veneziano; entrare in un campi di sterminio con uno storico o con una guida non è evidentemente la stessa cosa di entrarci con chi quell’inferno lo ha vissuto. I racconti sono vivi e ti lacerano il cuore, ma gli occhi, i suoi occhi blu esprimevano molto più di quanto ci stesse dicendo. Nei campi di sterminio si possono ritrovare tutt’oggi le baracche dove vivevano gli internati, i letti stretti di legno dove dormivano anche 9 persone insieme, ammassati; ci sono ancora alcuni strumenti di tortura e anche quelli utilizzati per gli esperimenti. Ci sono ancora le camere a gas ben riconoscibili e i forni crematori ancora intatti. Ma soprattutto, ci sono le fosse comuni. Ci sono i resti dei deportati sotto terra. Ci sono i bambini. I campi di sterminio non sono musei, sono cimiteri con milioni di cadaveri sotto terra, e non si riescono neanche a definire le aree specifiche dove sono seppelliti i corpi.
Durante quel viaggio con Mario Limentani mi sono trovata a chiedere a me stessa se vivrei mai in un cimitero. Non fuori o vicino, ma proprio dentro. E non come guardiano, ma come cittadina che decide liberamente di costruire la propria abitazione, carina, con i fiori e tutto, all’interno di un cimitero e magari sopra alcune fosse comuni. Difficile da credere, ma è proprio ciò che succede in Polonia, in Austria e anche in Lituania.
Camminavamo nel campo di Ebensee mentre “Zio” Mario ci raccontava la sua esperienza, una storia di sofferenza, di fame, umiliazione e morte. Ad un tratto si interruppe, guardò le villette col giardino e la jacuzzi costruite proprio nel campo di sterminio, (noi fino a quel momento non avevamo commentato per non infierire), ci disse qualcosa al riguardo, ma purtroppo non ricordo le parole esatte. Ricordo però la sua espressione che esprimeva tristezza, rabbia, sdegno. Poi rialzò la testa – perché questo bisogna fare nella vita – e riprese a raccontare, stavolta con un ghigno di chi vuole sdrammatizzare, di quando nella disperazione della fame catturò e mangiò il gatto di una SS. “Ancora lo sta a cercà”, scherzò. I racconti si fecero di nuovo cupi e duri, quando alzando gli occhi vedemmo la finestra di una villetta che si trovava vicino alla cava in cui gli internati scheletrici erano costretti a portare avanti e dietro grossi e pesanti massi senza motivo: in finestra i proprietari avevano messo una bambola che guardava fuori. Giuro che se ci ripenso ancora oggi mi vengono i brividi. Un gesto così è qualcosa di crudele, qualcosa di nazista.
A Gusen le finestre di un austriaco si affacciano proprio sul crematorio. L’ingresso del lager è diventato una villetta bellissima, ovviamente anche quella abitata.
Oggi apro un sito di informazione israeliano e leggo che a Kunas, in Lituania, il campo di concentramento conosciuto come Settima Fortezza, è ora diventato una location per eventi come matrimoni, feste di laurea e compleanni. Nel 1941 il campo fu “inaugurato” con la deportazione di migliaia di ebrei da parte di lituani collaboratori dei nazisti. Secondo l’articolo del The Times of Israel firmato Cnaan liphshiz, la maggior parte delle persone che prendono in affitto il posto è ben consapevole di cosa fosse prima di diventare una sala da banchetti, e durante quelle feste maledette, i festeggiati possono scorgere tutt’oggi le fosse comuni che accolgono i corpi di 5.000 ebrei, delimitate soltanto da alcuni paletti e rocce.
Leggo e non resto meravigliata. Poi ripenso alla visita con Mario Limentani e a come io e il mio gruppo di amici l’abbiamo affrontata. Siamo andati, abbiamo ascoltato, abbiamo sostenuto “Zio” Mario; abbiamo recitato delle preghiere, pianto e posto fiori. Gli uomini indossavano kippah. All’uscita abbiamo fatto una foto di gruppo con la bandiera dello Stato di Israele, che rappresenta l’autodeterminazione del popolo ebraico, la casa dove nessun ebreo potrà essere mai discriminato o cacciato. La sera, di ritorno dai campi, sentivamo la voglia di ridere, scherzare e divertirci. Volevamo sentirci vivi, come individui e come popolo.
Oggi Mario non c’è più, ma gli sono nati altri nipoti veri e “adottivi”. Si cerca di portare avanti un ebraismo vivo e partecipato, alcuni in Italia, altri in Israele. Quando si leggono queste notizie si fa di tutto per cercare di cambiare le cose, ma soprattutto, si alza la testa e si va avanti fieri, come ha insegnato il Veneziano e gli altri ex deportati.