Nei primi versi del libro delle Lamentazioni troviamo la frase בכה תבכה בלילה “Piangere, piangerà nella notte”. I Maestri si chiedono perché il verbo piangere viene ripetuto due volte e rispondono che i pianti si riferisco alla distruzione del primo e del secondo Tempio di Gerusalemme. Si interrogano ulteriormente sul perché il pianto avvenga proprio di notte (“nella notte בלילה”) e rispondono che la Beth di balaila va intesa nel senso che i pianti sono per quanto accadde in quella notte, quando gli esploratori mandati da Mosè ad esplorare la Terra di Israele prima della conquista, fecero un “reportage” apparentemente vero, ma in realtà tendenzioso, che spinse poi il popolo a rinunciare a entrare nella Terra promessa per conquistarla: è scritto “il popolo pianse in quella notte”, cioè il popolo pianse per quanto accadde in quella notte. Il Midrash aggiunge che il loro pianto era stato ingiustificato, ma nelle future generazioni esso si sarebbe trasformato in un pianto motivato e ben più vero. Infatti gli esploratori tornarono la vigilia del 9 di Av e il popolo pianse la notte di Tishà beav: per avere rifiutato di entrare in Erez Israel gli ebrei saranno costretti a passare da un esilio all’altro. L’esilio non è quindi un fatto “casuale” della storia e dell’identità ebraica, ma ne costituisce parte integrante della sua identità, dovuto a una sorta di quello che con un linguaggio non ebraico potremmo definire “un peccato originale”, accaduto proprio all’origine della storia ebraica e che ci portiamo dentro, quando decidiamo di rinunciare a salire in Israele.
Tuttavia, pur nell’affermare la negatività dell’essere in esilio, il popolo ebraico ha sempre cercato di reagire trasformando un fatto negativo in qualcosa di unico. Scrive Haim Hazaz, un romanziere israeliano, che gli altri popoli hanno assunto alcune tra le migliori qualità del popolo ebraico (il socialismo, l’internazionalismo, i 10 comandamenti, il giorno di riposo ecc), ma una sola non hanno mai voluto accettare, il Galut – l’Esilio – che con tutti i suoi aspetti negativi, ha anche rappresentato la sua grandiosa capacità di resistere e di produrre nuovi insegnamenti e nuovi modelli.
Un esilio che può divenire anche di redenzione, se saremo capaci di trasformare la Golà גולה in Gheullà גאולה, con la semplice aggiunta della Alef con cui inizia il nome di Dio.
Secondo la tradizione, il giorno di Tishà beav è anche il giorno in cui è nato il Messia: fin dal momento della distruzione, era già nato il desiderio della ricostruzione e della redenzione. Questo processo ha però bisogno del contributo di ognuno di noi.
Con l’augurio che quest’anno potremo già cestinare le Kinot, le elegie che si usano dire nel giorno di Tishà beav, e trasformare il pianto in lacrime di gioia.