Il primo commento da fare sulle elezioni israeliane è che non è banale ci siano state, siano state aperte, anzi imprevedibili, regolari, pacifiche e incontestate. Così è dall’indipendenza dello Stato, anzi anche da prima, dalla costruzione delle prime istituzioni libere dell’insediamento ebraico, cent’anni fa. In Europa ciò è piuttosto normale, nei dintorni di Israele no. Vi sono delle mezze democrazie, in cui si vota fra grandi condizionamenti, come in Turchia, in Libano, in Tunisia; ma anche queste sono eccezioni, dato che la regola è l’autocrazia.
La seconda considerazione è che vi è in Israele una divisione piuttosto stabile dell’opinione pubblica in tre gruppi: i partiti arabi antisionisti, la sinistra, la destra. Nel 2013 i deputati dei partiti arabi erano 11, i laburisti (15) più il partito di Tzipi Livni (6) erano 21, l’ultrasinistra di Meretz aveva 6 deputati, altri di sinistra (Yesh Atid) ne avevano 19, per un totale della sinistra di 46, Likud e Ysrael Beitenu (Lieberman) avevano 31 deputati, la destra di Casa ebraica ne aveva 12, i religiosi 18, per un totale della destra di 61. Nelle elezioni del 2015 gli arabi avevano 13 deputati, i laburisti più Livni arrivavano a 24, Meretz ne aveva 5, Yesh Atid 11, per un totale a sinistra di 40; il Likud ne aveva 30, Casa ebraica 8, i religiosi 13, Lieberman 6 e Kulanu (Kahlon) 10, per un totale di 67 (ma come qualcuno ricorda, Lieberman prima non è entrato nella coalizione, poi si è aggiunto, poi ne è uscito di nuovo, determinando le elezioni. Questa volta, secondo i voti contati fino al momento in cui scrivo (il 98% senza i seggi militari e degli ospedali) , i bianco-azzurri, eredi diretti di Yesh Atid hanno totalizzato 35 deputati, i laburisti sono piombati a 6, Meretz a 4, per un totale della sinistra di 45; gli arabi sono a 10, il Likud ne ha 35, l’unione di destra (erede di Casa ebraica) 6, Lieberman 5, Kulanu 5, i religiosi sono di nuovo a 16, per un totale della destra di 67. In sostanza gli schieramenti sono cambiati di poco: c’è una maggioranza del paese nettamente schierata a destra, che aumenterebbe se si tenesse conto dei voti dispersi dei partiti che non hanno superato il limite minimo del 3,25%. Si è avuto semmai un certo processo di concentrazione del voto verso i partiti maggiori.
Un’altra cosa da dire è che i sondaggi funzionano poco. Sembrava che la grande sorpresa di queste elezioni dovesse essere Zehut, il partito un po’ libertario, un po’ religioso, un po’ nazionalista che voleva la liberalizzazione della cannabis e la preparazione dell’edificazione del Terzo Tempio; ma almeno finora sembra non essere riuscita a raggiungere i 160.000 voti necessari per superare lo sbarramento minimo. E così sembra che non sia passata la Nuova Destra di Bennett, Shaked e Caroline Glick, che è il frutto di una scissione da Casa Ebraica. Il problema è che questa scissione non è stata ben compresa, e soprattutto gli elettori di destra non hanno capito gli attacchi continui a Netanyahu.
Con questa considerazione veniamo al vero vincitore delle elezioni, che è Bibi Netanyahu. Attaccato dalla stampa, da un partito artificiale costruito apposta per eliminare lui (e che probabilmente dopo l’insuccesso non avrà una lunga vita unitaria), da indagini della magistratura che da lontano appaiono poco fondate e di nuovo concentrate solo su di lui, vittima inevitabile della stanchezza del pubblico dopo dieci anni da primo ministro (e negli ultimi quattro anche ministro degli esteri e della difesa), Netanyahu ce l’ha fatta probabilmente a conquistare il quinto mandato da Primo Ministro perché rappresenta per il pubblico israeliano la garanzia di una linea di affermazione nazionale non visionaria ma in grado di fare i conti con la realtà e di piegarla nell’interesse dello stato ebraico. La politica economica liberale di Netanyahu ha permesso l’incredibile boom economico di Israele degli ultimi dieci o vent’anni; la sua abilità diplomatica e la sua credibilità internazionale sono state alla base dei successi internazionali di Israele. Le concessioni avute sia dagli Usa che dalla Russia derivano dal riconoscimento di posizioni realistiche, costruttive, lucide da parte di Israele, innanzitutto in rapporto all’Iran e ai paesi arabi. Anche la sicurezza di Israele è evidentemente fra i punti forti del primo ministro uscente. L’elettorato ha apprezzato la decisione e la misura, con cui è stata per esempio trattata la questione di Gaza, evitando di impegnarsi in una guerra inutile per rappresaglia rispetto alle fastidiose ma del tutto velleitarie mosse di Hamas.
Contro Netanyahu si è impegnato lo “stato profondo”, quegli apparati militari, giudiziari e mediatici che si riproducono per cooptazione e pensano di essere superiori alla volontà popolare. E’ una battaglia che evidentemente non è finita. Dopo le trattative per la formazione del governo, che non saranno semplici, dovendo commisurare le esigenze di sei partiti (o forse sette, se la Nuova Destra troverà nelle schede dei soldati i quattro mila voti che le mancano), Netanyahu dovrà misurarsi all’estero con forti richieste internazionali, prima di tutto col piano di pace di Trump che dovrebbe uscire presto, e all’interno coi gruppi di potere che hanno lavorato per abbatterlo e che condizionano pesantemente la democrazia israeliana. La speranza è che con la sua caratteristica capacità di coniugare equilibrio e decisione, trovando il momento opportuno per rischiare e quello per attendere, Netanyahu abbia ancora molto da dare alla democrazia israeliana