Elezioni Israele 2019. Un sistema politico democratico funziona se riesce a esprimere un governo che attui le scelte desiderate dalla maggioranza degli elettori, ma assicuri adeguata rappresentanza anche alle minoranze e ponga freni al rischio sempre presente di una dittatura della maggioranza. Sono requisiti molto difficili da ottenere assieme. I diversi sistemi politici, elettorali e costituzionali cercano di contemperarli in maniera diversa. In Israele vi è una sola camera e quindi manca un tradizionale contrappeso alla maggioranza, ma le leggi vanno votate tre volte; il governo ha un forte controllo del sistema parlamentare, ma è spesso contrastato dal giudiziario; il sistema elettorale è proporzionale con un collegio unico nazionale e una piccola barriera all’ingresso. Su un paese di nove milioni di abitanti (non di elettori) ci vogliono duecentomila voti per superare la barriera di ingresso e circa cinquantamila per un deputato. I partiti alla Knesset sono una decina, anche senza contare il fatto che sono spesso suddivisi in frazioni organizzate. Difficilmente il partito più forte supera il 20% dei voti e dunque il 25% dei deputati (cioè 30). Le coalizioni sono obbligatorie e non sempre facili da fare, perché la personalizzazione è molto forte. Alcuni partiti sono tradizionali e davvero collettivi, ma parecchi sono costituiti da un leader intorno alla sua persona.
Bisogna capire questo quadro, che è stato spesso modificato nei dettagli ma mantiene il suo carattere dalla fondazione dello stato per seguire quel che succede nella campagna elettorale in corso. Vi sono state scissioni (Bennet e Shaked che se ne sono andati dalla “Casa ebraica” per fondare un loro partito), liste che si sono disciolte nei partiti originari (la “lista sionista” nei laburisti e nel partito di Livni; la “lista unita” degli arabi che si è divisa di nuovo nei tre partiti originari), tentativi di nuovi partiti (l’ex capo di stato maggiore Gantz, l’ex ministro della difesa Yaalon, varie altre personalità meno note), travasi di deputati (dal partito di Kaalon al Likud), altre minacce di scissione, tentativi di unione che probabilmente saranno necessarie ai peggio piazzati nei sondaggi per sperare di arrivare alla Knesset. In sostanza il sistema israeliano privilegia la rappresentanza sulla decisione e compensa il conseguente problema di governabilità dando forti poteri al primo ministro. Ma il sistema può introdurre forti deformazioni anche dopo le elezioni, se la tattica dei singoli politici prevale sugli schieramenti. Questo si è visto nella scorsa legislatura per esempio con le oscillazioni di Liberman, che ha avuto i suoi seggi da un elettorato di destra, ma prima si è schierato con l’opposizione di sinistra, poi si è unito al governo e ne è uscito credendo di potersi contrapporre a Netanyahu da destra.
Bisogna dunque chiedersi, al di là delle candidature e della geometria variabile delle liste che cosa vuole l’elettorato israeliano. Ci aiuta a capirlo un sondaggio così chiaro che va al di là delle possibili oscillazioni dovute alle ultime notizie, alle simpatie e alle antipatie provocate dalle prese di posizione dei vari lerader di partito. Eccolo:
“Secondo il sondaggio condotto dal Guttman Center dell’Israel Democracy Institute in collaborazione con l’Università di Tel Aviv, una maggioranza relativa di ebrei israeliani (37,2%) sperano che un governo di destra venga istituito dopo le elezioni della 21ª Knesset. Poco più di un terzo (35,6%) spera che il nuovo governo sarà di centro destra, per un totale del 72,8% a sostegno di una coalizione nella parte destra dello spettro politico. In confronto, solo il 3% degli ebrei spera che il governo sia di sinistra, mentre un ulteriore 16,8% nutre speranza per un governo di centro-sinistra, dando un totale di meno del 20% a sostegno di una coalizione nella parte sinistra dello spettro. Gli arabi israeliani sono più propensi a sostenere un governo di sinistra, con il 50% a sostegno di tale coalizione, rispetto al 16% a favore di un governo di centro-sinistra, il 5% a favore di un centro-destra, un sostegno del 16% a coalizioni di destra. Gli israeliani – sia arabi che ebrei – si aspettano che il nuovo governo sia di destra o di centro destra. Il 42,4% degli ebrei e il 57,4% degli arabi dichiarano che il prossimo governo sarà di destra, rispetto al 43,6% degli ebrei e al 10,8% degli arabi che credono che sarà il centro-destra. Solo lo 0,8% degli ebrei e il 12,6% degli arabi pensano che la nuova coalizione sarà di sinistra, con un ulteriore 3,6% di ebrei e il 6,3% di arabi che dicono che il prossimo governo sarà probabilmente il centro-sinistra.”
In sostanza il 70 per cento degli ebrei e il 20 per cento degli arabi vogliono una coalizione di destra o centro destra e l’86% degli ebrei e il 68% degli arabi lo prevedono. (Bisogna tener conto che spesso la previsione più del desiderio è un’indicazione fedele delle intenzioni di voto.) Il dato è chiarissimo: il paese vuole e crede che le politiche attuali continuino. Il che ha perfettamente senso, perché esse hanno avuto un grande successo politico, diplomatico e anche militare, nonostante tutti i tentativi di diffamazione di Netanyahu. Si può solo sperare che la tattica politica non offuschi troppo questa intenzione (ma possiamo essere sicuri che Bibi è lucido e bravo in politica interna come nella guida dello stato) e che non vi siano interferenze dell’apparato poliziesco, burocratico e giudiziario, cioè del cosiddetto “deep state”, che in buona parte è rimasto ancora legato alla vecchia egemonia della sinistra.