Dopo una campagna elettorale lunga e molto velenosa, con molta diffamazione fra le parti e interventi a gamba tesa della Corte Suprema e del Procuratore Generale, finalmente martedì in Israele si vota per eleggere il prossimo parlamento unicamerale (la Knesset). Gli aventi diritto al voto sono meno di sei milioni e mezzo, ma è probabile che gli elettori attivi siano più o meno quattro milioni e mezzo, che devono eleggere centoventi deputati con un collegio unico nazionale e un sistema proporzionale puro, moderati solo da una soglia minima del 3,25 per cento. Il che vuol dire che per entrare alla Knesset un partito dovrà ottenere più o meno 160 mila voti e che ogni eletto “costerà” più o meno 40 mila voti. Non vi sono preferenze, i candidati sono prescelti secondo l’ordine in cui sono collocati in lista, spesso ma non sempre sulla base di primarie di partito. Questo sistema produce una grande frammentazione. Nelle scorse elezioni il Likud vinse le elezioni col 23% dei voti e dietro c’era il Campo sionista (laburisti più il movimento di Tzipi Livni col 18%). Quest’anno i sondaggi attribuiscono ai due principali antagonisti (ancora il Likud e i “bianchi e azzurri” di Gantz e Lapid) intorno al 20% ciascuno, mentre vi sono altri dodici partiti da 7% in giù, molti addensati proprio sulla soglia minima del 3,25%. Tutto ciò provoca molta incertezza sui risultati elettorali, perché per esempio potrebbe accadere che se due o tre partiti di destra (che sono i più numerosi) restassero sotto la soglia, dato che i loro voti non sono recuperabili, la divisione parlamentare dei seggi fra destra e sinistra potrebbe non rispecchiare pienamente quella del paese, dove è stabilmente in maggioranza la destra. Ciò rende anche molto difficili le previsioni esatte, dato che il risultato in questi casi potrebbe dipendere da poche migliaia di voti.
La frammentazione produce un altro problema questa volta sul governo. Israele non ha mai conosciuto un governo monopartito, solo coalizioni. E anche quando, come in questo caso, sia a destra che a sinistra vi è un partito molto più grande degli altri (il Likud e i bianco-azzurri), è assai probabile che ciascuno dei due arrivi appena alla metà dei seggi necessari alla maggioranza alla Knesset (più o meno 30 seggi su un totale di 120) e che dunque sia necessaria una coalizione di setto o otto partiti per raggiungere una maggioranza sicura col risultato che ciascuno di essi, sentendosi indispensabile, può avanzare pretese ben superiori al suo peso. La legge prevede che il presidente della repubblica possa assegnare l’incarico di costituire il governo a qualunque deputato. Data la vecchia ruggine fra Netanyahu e Rivlin, ciò ha suscitato molti sospetto da parte del primo ministro uscente. Ma la prassi vuole che contino due criteri: essere il leader del partito più votato ed essere indicato da più partiti (cioè da una potenziale maggioranza) come possibile nuovo primo ministro.
Sul primo criterio la gara fra Likud e bianco-azzurri sembra aperta: il nuovo partito di Gantz è stato favorito per buona parte della campagna, ma gli ultimi sondaggi sembrano indicare una prevalenza del Likud. Sul secondo, invece non c’è partita. Quasi tutti i sondaggi da mesi indicano che lo schieramento di centro destra (fra i 62 e i 68 seggi) è molto superiore a quello dei possibili alleati di Gantz (cioè i laburisti e l’estrema sinistra di Meretz, che insieme sono accreditati di 12-15 seggi (con un totale fra i 42 e i 46). Questa maggioranza continuerebbe a esistere se si mettessero in conto le due liste antisioniste prevalentemente arabe, che sono accreditate fra i 9 e i 12 seggi, portando così lo schieramento di sinistra fra i 52 e i 58 seggi. Il problema però non è solo aritmetico ma politico. Potrebbero degli ex capi dell’esercito israeliano come Gantz e alcuni dei suoi soci, allearsi con partiti esplicitamente antisraeliani e legati al terrorismo? E se i bianchi-azzurri volessero allargare una possibile coalizione ai partiti religiosi, come ha fatto capire Gantz negli ultimi giorni, come conciliare questa alleanza con il laicismo militante del suo vice Lapid e di Meretz?
Salvo dunque risultati imprevisti, anche per il gioco della soglia di sbarramento, la capacità di coalizione di Newtanyahu è ben maggiore di quella dei suoi concorrenti. E questo corrisponde agli orientamenti dell’elettorato israeliano che certamente non vuole che ricominci il vecchio discorso degli scambi fra pace e territorio, rievocato più volte da Gantz e che invece deve constatare i successi di Netanyahu in campo diplomatico, militare e anche economico. Certo, dieci anni di governo ininterrotto dello stesso primo ministro sono noiosi e anche Ben Gurion a un certo punto fu messo in disparte. Ma Netanyahu è senza dubbio il solo vero statista internazionale di cui Israele dispone e il suo orientamento di destra ma prudente, senza forzature belliche, è quello che probabilmente corrisponde al modo di sentire dell’elettorato israeliano. Contro di lui c’è però, è chiaro lo “stato profondo”, i vertici dell’esercito e della magistratura, forse anche Rivlin. Insomma la partita è aperta, questo è il bello della democrazia. E solo l’elettorato israeliano, non i governi stranieri e neppure gli ebrei che amano Israele dall’estero (e tanto meno quelli che non lo amano) possono decidere che li potrà governare.