Questa mattina la Comunità Ebraica di Venezia, presso la Sinagoga Spagnola nel Ghetto Vecchio ha ufficialmente accolto Rav Scialom Bahbout come rabbino capo. Qui di seguito il discorso tenuto dal neo capo rabbino durante la cerimonia di insediamento:
Brukhim habaim, benvenuti a tutti – autorità, amici e cittadini – convenuti chi da vicino, chi da lontano per condividere con la Comunità e con me questo momento. A tutti un caloroso saluto per l’onore che la vostra presenza qui oggi conferisce alla Comunità e a me.
L’insediamento come rabbino capo di una Comunità è l’occasione per
– Riflettere sulla funzione dell’Ebraismo oggi e indicare quali sono le cose più importanti sulle quali impegnare la nostra azione per indicare l’indirizzo da dare alla vita della collettività ebraica.
– Definire il rapporto con la città nelle sue varie sfaccettature religiose, culturali e politiche e per costruire un futuro che sia migliore e più condiviso, un futuro che sia nel segno della continuità, ma anche del cambiamento che il momento impone.
Cominciamo proprio da quest’ultimo punto.
Venezia non è una città qualunque, ma è “Unica”, come leggiamo nei cartelloni pubblicitari che troviamo dappertutto: questo vale certamente per la città, ma anche per la Comunità ebraica che vi vive, tra alterne vicende, da molti secoli.
Mentre gli ebrei venivano cacciati dal Meridione, nonostante la creazione del Ghetto, di cui tra un anno ricorre il 500° anniversario della sua istituzione, Venezia e il Veneto accolsero gli ebrei espulsi dal Meridione. Gli espulsi accolti con favore, contribuirono fin dai primi momenti alla vita e all’economia della Serenissima e del Veneto. Don Izchak Abravanel e Abraham De Balmes sono due fra i più illustri esempi di studiosi che dal sud si trasferirono nel Veneto. La creazione del Ghetto nel 1516 ha certamente rappresentato una ferita dolorosa, ma gli ebrei seppero trasformare le ombre in luci e seppero essere riconoscenti per l’accoglienza che gli ebrei espulsi dal Meridione trovarono nel Veneto e a Venezia in particolare.
Dopo l’apertura del Ghetto il contributo ebraico fu ancora più rilevante. Il nome più noto e illustre è quello di Daniele Manin, capo della rivolta del 1848 – 49 contro gli austriaci, discendente di una famiglia ebraica ed egli stesso formalmente ebreo secondo la Legge ebraica. Come descrive rav Adolfo Ottolenghi nei suoi scritti, tutta la Comunità ebraica contribuì ai moti rivoluzionari: il “cittadino” Abraham Lattes, rabbino maggiore della Comunità, che operava a stretto contatto con lo stesso Manin, molto si prodigò per il successo dei moti rivoluzionari. Il 17 agosto del 1849 una bomba austriaca squarciò il tetto della Scola Spagnola: quel giorno fu chiamato successivamente “il Venerdì della bomba” e scolpita vicino all’Arca Santa in cui sono custoditi i rotoli della Legge, Abraham Lattes scrisse questa epigrafe
“Qui sprofondò una bomba – rovinando s’inabissò – dànno non produsse – passò irrompendo ma con giudizio.
Sera del capo mese di Elul – nell’ora della preghiera, 5609”
Ma ci furono personaggi meno noti e oggi del tutto dimenticati, anche se portatori di idee geniali. Tra questi voglio ricordare Ippolito Mayrargues, inventore ingegnoso, morto a Venezia nel 1891 che presentò alla Municipalità di Venezia un suo progetto di “fogne mobili a separatore spontaneo”, un progetto per un problema – quello fognario – a tutt’oggi non ancora del tutto risolto. ll Mayrargues sosteneva che, con il suo ingegnoso sistema, si sarebbe potuto creare un valore aggiunto con la fabbricazione di concimi umani!
Quale può essere oggi il contributo ebraico alla società e a quella veneziana in particolare?
La partecipazione ebraica alla vita sociale, economica e culturale della città fu rilevante, ma ebbe anche un prezzo altrettanto rilevante: usciti dal Ghetto gli ebrei assimilarono i costumi della società esterna. Rinchiusi nei Ghetti gli ebrei avevano mantenuto la propria libertà – liberi nella schiavitù – perché non avevano modificato i propri costumi. La rinuncia alla propria identità culturale ha significato la perdita del contributo specifico e originale che l’ebraismo poteva dare.
Viviamo in un’epoca in cui il mondo si è globalizzato e l’ebreo non avverte la vita ebraica comunitaria come centrale nella propria esistenza: che ruolo può svolgere la piccola minoranza ebraica?
In passato l’ebraismo ha consegnato al Mondo le regole dell’etica attraverso i Dieci comandamenti, insegnando al Mondo concetti fondamentali come quelli della giustizia e dell’amore per il prossimo e per lo straniero, principi ebraici che non vengono applicati appieno nella società odierna. Viviamo in un’epoca in cui l’uomo è privo di punti riferimento stabili. Se c’è un elemento che caratterizza la storia e l’identità ebraica è la consapevolezza di sapere da dove veniamo e sapere dove vogliamo e dobbiamo andare. Una fiducia nel futuro nonostante tutto. Educando giorno dopo giorno alla speranza il popolo ebraico ha garantito la sua misteriosa sopravvivenza, nonostante tutto, cercando di rimettere a fuoco la propria identità ebraica, rapportandola in maniera dinamica ai cambiamenti che comporta la modernità nella società.
Come ha appena accennato rav Menachem Genack, oggi è il primo giorno del mese di Kislev, un mese particolare in cui cade la festa di Chanukkà che ricorda come un piccolo manipolo di uomini – La famiglia dei Maccabei – riuscì a combattere la grande potenza culturale della Grecia. Come scrive Bertrand Russel, uno dei maggiori pensatori del pensiero laico, nella sua Storia della Filosofia Occidentale “se non ci fossero stati i Maccabei non ci sarebbe stato né il Cristianesimo né l’Islamismo”. Comunque si voglia giudicare questa affermazione, non può sfuggire quanto sia importante difendere la propria identità, pur senza limitare quella degli altri. Quindi, se i Maccabei avessero rinunciato alla propria identità e si fossero ellenizzati, il prezzo pagato sarebbe stato enorme non solo per gli ebrei, ma per una gran parte dell’umanità.
Questo insegnamento è sempre attuale: l’ideale per ogni gruppo umano è quello di mantenere la propria identità per metterla al servizio della società. La diversità è una risorsa per l’umanità.
In questa situazione, è chiaro che il rabbino deve svolgere un ruolo importante. Dopo la deportazione e l’eliminazione di una parte consistente della Comunità, Venezia è stata retta da vari rabbini che ho avuto l’occasione di conoscere: da rav Elio Toaff che è stato anche mio Maestro al Collegio Rabbinico, a rav Menachem Artom z.l. e rav Roberto Della Rocca con cui ho collaborato a lungo, a rav Raffaele Grassini z.l. di cui sono stato amico, maestro e fratello. Pur essendo figlio “incompreso” di questa Comunità, Raffaele ha trovato il coraggio e la forza di rafforzare le basi per fare quei cambiamenti che erano necessari e hanno consentito a tutti coloro che gli sono succeduti di creare una Comunità in cui la Halakhà fosse sempre più il punto di riferimento per tutta la vita ebraica. Sia il suo ricordo di benedizione.
Veniamo ora al ruolo del rabbino.
Come vede la tradizione ebraica il rapporto tra la guida, sia essa politica che spirituale, e la collettività in cui opera? Quali sono le qualità necessarie per poter diventare una guida? Il problema della scelta di una guida adeguata si pone al momento della morte di Mosè. Troviamo scritto nella Torà (Numeri 27: 15-17):
«Mosè parlò al Signore dicendo così: “Destìni il Signore, Dio degli spiriti di ogni vivente, un uomo sulla Comunità, il quale esca davanti a loro ed entri davanti a loro, li faccia uscire ed entrare, affinché la Comunità del Signore non sia come un gregge che non ha pastore”».
L’espressione “Dio degli spiriti” con cui viene chiamato Dio è assai rara e ha fatto pensare che il compito della guida debba essere quello di trovare il modo affinché il suo “spirito” riesca a comunicare con ogni singolo membro della collettività. La guida deve, per così dire, sintonizzarsi sulla stessa lunghezza d’onda della collettività, pronta a trasformarsi per andare incontro a ogni interlocutore, senza perdere tuttavia la propria identità di guida. Una guida deve essere capace di andare davanti, ma camminare assieme al popolo, non deve correre il rischio di imporre un ritmo cui la società non è in grado di adeguarsi.
Ogni generazione ha bisogno di una nuova guida che sappia interpretarne i bisogni: se fosse vissuto ai tempi di Giosuè, lo stesso Mosè sarebbe stato inadeguato alle necessità del momento. Molto spesso, di fronte alla corruzione e all’incapacità delle guide del momento, si ha la tentazione di volgere indietro lo sguardo e mitizzare le guide del passato. Ma, di fronte alle affermazioni di catastrofismo, un antico e saggio detto giudaico romanesco afferma: morto Mosè, c’è rimasto Dio.
Cosa si aspetta oggi ciascun ebreo dal suo rabbino?
– Il rabbino deve essere in grado di rispondere ai bisogni di ogni singolo individuo, cercando di trovare una risposta basata sulla tradizione, ma adatta alle esigenze delle persone e della collettività;
– Il rabbino deve cercare di mantenere l’unità della Comunità che è conditio sine qua non per lo sviluppo della Comunità stessa
– Il rabbino deve fungere da ponte tra ogni singolo ebreo e la tradizione ebraica.
E quali sono i punti fondamentali su cui un rabbino deve basare la propria opera?
– Rafforzare il ruolo della casa ebraica e della famiglia. Per quanto sia importante il Sinagoga (intesa sia come casa di preghiera che come casa di riunione), è stata la casa ebraica che ha conservato e salvato l’ebraismo nei secoli: non è un caso che, in Egitto, l’Angelo della morte passi oltre le case di Israele. Questo significa portare l’ebraismo anche fuori dalla Sinagoga per produrre un cambiamento a livello individuale e collettivo: nel realizzare questo obiettivo, il rabbino deve saper sognare, ma deve saper guidare la sua comunità, tenendo sempre i piedi ben piantati per terra. Pertanto, contribuire a ridare alla casa e alla famiglia il ruolo di riferimento che ha sempre avuto nella società ebraica, potrebbe essere un’indicazione esemplare che la Comunità ebraica può dare alla collettività.
– Rispettare la Halakhà. La globalizzazione comporta anche grossi pericoli. Infatti, i rapporti con il mondo rabbinico europeo e internazionale hanno anche messo in crisi il modello di ortodossia italiano: è necessario un atteggiamento ponderato che non delegittimi tutto quanto di buono è stato fatto sino a oggi e lottare per l’affermazione di una via italiana alla Torà, che non sia una semplice riproduzione di altri modelli estranei alla tradizione ebraica italiana, che è sempre stata rispettosa della Halakhà, ma gelosa delle proprie tradizioni: a tal fine è necessario formare nuove e preparate guide.
– Conservare il minhag (uso locale), senza congelarlo. La Comunità di Venezia ha varie caratteristiche che la rendono profondamente diversa dalla maggior parte delle comunità italiane in quanto da maggioranza ashkenazita e poi italiana ha poi assunto l’uso sefardita: un uso, anche quando non è una norma – “halakhà” – in linea di massima va conservato, ma non deve mai lasciarsi condizionare. Il Minhag per sua natura è in continua evoluzione. Gli ebrei veneziani sono giustamente gelosi della propria tradizione: bisognerà rafforzare questa tendenza con lo studio delle fonti e dei Responsa dei rabbini che hanno operato a Venezia, interpellando anche i Maestri del momento.
– Trovare l’equilibrio tra il tempo da dedicare a coloro che sono già vicini all’ebraismo e vogliono conoscerlo sempre meglio e a coloro che sono lontani, ma desiderosi di riavvicinarsi all’ebraismo. Questo è un dovere però anche di tutti i membri della Comunità, in quanto è una caratteristica fondamentale per lo sviluppo della comunità stessa: ogni ebreo è garante per un altro ebreo. Un concetto questo della reciproca garanzia che potrebbe / dovrebbe diventare parte integrante dell’educazione civica e della formazione.
– Trascinare la Comunità all’applicazione dell’idea che l’ebraismo è educazione permanente a vivere la Torà come un canto ogni giorno: l’elevazione culturale deve essere una delle preoccupazioni fondamentali, a partire dalla scuola materna, per continuare poi in quella elementare e superiore, per finire con gli adulti Uno studio che interessi tutte le età è uno degli obiettivi irrinunciabili per una Comunità. In questo ambito rientra la necessità di provvedere alla formazione di nuove leve in grado di guidare la Comunità in tutti i settori.
– Dare un livello internazionale ai servizi che già offre e che vanno rafforzati: kasherut, mikvè, corsi per tutte le età, sostegno in caso di lutto, corsi di hazanuth per chi è desideroso di imparare a officiare, fare una comunicazione appropriata sui temi più scottanti all’interno e all’esterno della Comunità per un proficuo confronto con il mondo non ebraico.
– Accogliere tutti coloro che si avvicinano alla Comunità per farne parte o solo per visitarla in occasione del sabato delle feste.
Un discorso a parte costituisce il ruolo del rabbino in una città come Venezia che ha una vocazione internazionale. Gli ebrei non vivono in un vuoto pneumatico: esistono rapporti con il mondo esterno ed è talvolta necessaria la parola del rabbino per chiarire la posizione della Torah su alcuni temi delicati. La priorità rimane e deve sempre rimanere l’attenzione ai membri della Comunità ebraica di Venezia, senza dimenticare il resto della città e i numerosi turisti che invadono le strade di Venezia e il Ghetto. L’afflusso turistico di cui gode la Comunità di Venezia deve essere un’occasione per per essere riconosciuta come una Comunità, vero punto di riferimento per chi viene a trascorrere qualche giorno a Venezia.
In ultima analisi, la caratteristica più importante che a mio parere deve avere un leader, sia esso un rabbino sia essa un’altra guida, è quella di porsi in ascolto, sulla stessa lunghezza d’onda delle persone con cui entra in relazione, siano esse ebree che non ebree, desiderose di avvicinarsi o semplicemente di conoscere l’ebraismo.
Quanto detto sinora costituisce una serie di proposte per la Comunità ebraica, ma in parte anche per la società in generale: assieme alle molte idee che l’ebraismo ha diffuso nel corso della Storia, gli sforzi con cui gli ebrei hanno difeso la propria identità alla lunga sono stati, per così dire, premiati dalla dichiarazione coraggiosa e storica con cui Papa Giovanni Paolo II chiamò gli ebrei fratelli maggiori. Dopo la dichiarazione Nostra Aetate – di cui ricorrerà l’anno prossimo il Cinquantenario – le parole di Papa Woytila – comunque le si vogliano interpretare – rilanciarono il dialogo tra la Chiesa e il popolo ebraico, contribuendo anche in maniera incredibile all’apertura dei rapporti diplomatici tra lo Stato d’Israele e la Chiesa.
I riflettori costantemente rivolti su ciò che accade in Israele, a Gaza e in Cisgiordania in maniera assolutamente sproporzionata rispetto a quanto avviene anche in altri paesi – si pensi a molti paesi del Medio Oriente o dell’Asia orientale dove avvengono eccidi in numero incredibile e disumano– hanno aumentato il fenomeno dell’antisemitismo che sembrava una malattia oramai debellata: a quanto pare quel virus miete ancora vittime, ma potrà mieterne ancora di più perché l’antisemitismo è solo la cartina di tornasole della società, e prima o poi anche altre minoranze finiranno per esserne colpite. Anche se molto rimane da fare, il ruolo della Chiesa nella lotta all’antisemitismo è molto importante e la dichiarazione di Papa Woytila contribuisce in modo eccezionale a questa lotta.
Io sono discendente di una famiglia trasferitasi dal Marocco a Gerusalemme nella seconda metà dell’Ottocento, in una terra che nell’Ottocento era parte integrante dell’Impero Ottomano e che oggi si chiama Israele e/o Palestina. Mio padre è nato a Gerusalemme sotto gli Ottomani e quindi a buon diritto potrei dichiararmi ebreo e palestinese. In quanto tale auspico che, seguendo l’esempio di Papa Giovanni Paolo II, i più importanti leader religiosi del mondo islamico del Medio Oriente rompano il silenzio e riconoscano in maniera chiara, anche con parole diverse, il fatto che gli ebrei sono storicamente i fratelli forse maggiori, comunque più anziani, e che, per questa loro funzione storica di seme dell’umanità, meriterebbero una maggiore attenzione e rispetto, ovunque essi si trovino. Una dichiarazione del genere metterebbe in moto un dialogo che potrebbe avere un’influenza determinante anche nell’annoso conflitto tra israeliani e arabi, che potrebbero dedicare le proprie energie migliori per costruire e vincere la pace.
Purtroppo proprio in questi giorni abbiamo assistito a un ennesimo brutale attentato terroristico da parte dei palestinesi: l’assassinio di persone che si trovano in preghiera silenziosa in una sinagoga. I leader religiosi e politici dei palestinesi, così come i sostenitori dei palestinesi stessi, anche quando rompono il silenzio e condannano l’atto, aggiungono sempre dei ma che contraddicono le loro dichiarazioni.
Prima di terminare questo discorso vorrei ringraziare il Consiglio della Comunità di Venezia che mi ha chiamato a ricoprire la carica di Rabbino Capo. Vorrei anche ricordare i miei genitori e in particolare mia madre che tanta parte ha avuto nell’indirizzarmi agli studi ebraici e non ebraici, a Mimma, – moglie e madre dei miei tre figli Sara, Ilana e Gavriel – e mia moglie Patrizia Elisheva mancata recentemente: tutte e tre sono presenti in qualche modo a questo momento.
Raccogliendo gli echi che provengono da molte parti, prima di terminare benedicendo i presenti, voglio concludere questo mio discorso, con la preghiera con cui il Maestro del Chassidismo Rabbi Nachman di Braslav invocava la pace:
Ti sia gradito, Signore Dio nostro e Dio dei nostri padri,
Signore della pace, re cui la pace appartiene,
di porre la pace nel tuo popolo Israele.
E la pace si moltiplichi fino a penetrare in tutti coloro che vengono al mondo.
E non ci siano più né gelosie né rivalità
né vittorie né motivi di discordia fra gli uomini,
ma ci siano solo amore e pace fra tutti.
E ognuno conosca l’amore del suo prossimo,
in quanto il suo prossimo cerca il suo bene e desidera il suo amore
e agogna il suo costante successo, al fine di potersi incontrare con lui e a lui unirsi,
per parlare insieme e dirsi l’un l’altro la verità … in questo mondo.
Un mondo che passa come un batter d’ occhi, come un’ombra.
Non come l’ombra di una palma o di un muro,
ma come l’ombra dell’uccello che vola …
(da Likutè tefilloth, preghiera 27)
Nella foto in alto: Rav Scialom Bahbout, neo rabbino capo della Comunità Ebraica di Venezia