La notizia può sembrare semplicemente comica: tre gruppi palestinisti piuttosto improbabili (il “Raggruppamento nazionale degli indipendenti”, la “Fondazione internazionale per la prosecuzione dei diritti del popolo palestinese” e il “Sindacato dei Giornalisti Palestinesi”) hanno depositato una querela contro il governo di Sua Maestà Britannica per la Dichiarazione Balfour. E naturalmente l’hanno fatto in un tribunale di Nablus, non in Inghilterra. La notizia è ridicola per almeno due ragioni: perché la Dichiarazione è stata emessa il 2 novembre del 1917 e dunque cento e tre anni fa, ben al di là di qualunque giurisdizione. Pensate a qualcuno che volesse sporgere querela per annullare il trattato di Westfalia (1648) o anche solo quello di Versailles (1918) o magari eccepisse all’incoronazione imperiale di Carlo Magno (800): insensato. L’altra ragione è che gli stati sono sovrani e le loro scelte politiche non hanno lo stesso statuto giuridico delle responsabilità personali. La Dichiarazione Balfour non è un atto legislativo, è esplicitamente un gesto politico (inizia così: “Il governo di Sua Maestà vede con favore la costituzione in Palestina di un focolare nazionale per il popolo ebraico e si adopererà per facilitare il raggiungimento di questo scopo”) La Gran Bretagna non può essere processata, tanto meno per una dichiarazione di intenti di cent’anni fa.
Le corti dell’Autorità Palestinese, la cui credibilità è comunque molto scarsa perché tollerano torture nelle carceri, corruzione del governo, assenza di elezioni, possono sentenziare quel che vogliono, è difficile che Boris Johnson si turbi. E allora, perché l’hanno fatto? E’ chiaro che in una dittatura come quella dell’Autorità Palestinese queste iniziative non sono “indipendenti” o “spontanee”, ma rispondono alla linea politica del partito dominante (Fatah), riguardano la politica e non la giustizia. Le cause che hanno portato a questa iniziativa a me sembrano tre. Una è una certa abitudine allo sfregio e all’insulto come strumento di lotta politica: tirare scarpe, bruciare bandiere e ritratti, pubblicare immagini insultanti e video minacciosi sono attività diffusissime nel mondo islamico degli ultimi decenni, violenze simboliche che fungono da premessa della violenza vera del terrorismo, o la sostituiscono quando quest’ultima “purtroppo” non è praticamente realizzabile. E’ un modo di far politica perdente e sciocco, che nel pubblico non produce consenso ma disprezzo e negli avversari non paura ma allarme e misure di contenimento. Ma essa disgraziatamente si è diffusa anche in Occidente: si pensi alla “cancel culture” e all’abbattimento delle statue.
La seconda ragione è l’abuso che la giustizia ha fatto di se stessa in buona parte del mondo, disprezzando le regole e politicizzandosi. Si pensi a quel che non ha combinato la magistratura italiana per danneggiare gli avversari politici della sinistra, o agli interventi di quella americana contro Trump. Soprattutto si pensi al tentativo, ancora in corso, del Procuratore della Corte Penale Internazionale Fatou Bensouda di applicare la giurisdizione della Corte contro il suo stesso statuto, a stati che non hanno aderito al suo trattato istitutivo, per esempio Israele e Stati Uniti, allo scopo tutto politico di condannare le loro politiche. Che c’è di male in un processo farsa in più dopo questi esempi? Insomma la giustizia si è largamente politicizzata dappertutto, perdendo molta autorità. E in effetti l’esempio del processo propagandistico contro l’Occidente è stato prontamente seguito dal più rumoroso dittatore islamico del momento, Erdogan, che ha fatto querelare i suoi critici europei come il politico olandese Wilders e il giornale satirico francese bersagliato dai terroristi “Charlie Hebdo”.
Ma c’è un terzo aspetto, che è il più specifico. Grazie al rifiuto di Trump di adeguarsi al vecchio luogo comune che non vi può essere pace in Medio Oriente senza il consenso dei “palestinesi” da qualche mese in qua il panorama politico della regione è completamente cambiato. E’ accaduto qualcosa di molto più profondo dei trattati “freddi” firmati a suo tempo da Israele con Egitto e Giordania. Sono partire iniziative comuni in campi diversi come l’economia, la scienza, la medicina e perfino la religione. C’è stato un effetto contagioso che non è ancora finito e potrebbe coinvolgere anche vecchi nemici come Libano e Qatar. In sostanza gli arabi, tutto d’un colpo, hanno potuto prendere atto che gli ebrei fanno da sempre parte del panorama mediorientale, che sono un soggetto legittimo della regione e non un “colonialista” e che la collaborazione con loro può essere utile a tutti.
Dichiarazione Balfour
Chi è rimasto tragicamente fuori da questo benefico bagno di realtà sono proprio i palestinisti, quelli che potrebbero trarre maggiore beneficio da una analoga presa di coscienza e integrazione. O meglio, ne sono rimasti certamente fuori i loro dirigenti. E’ difficile dire che cosa si muova nella testa della gente comune. Ma è chiaro che a molti fra Ramallah e Gaza sarà venuto in mente che forse cambiare gioco, accettare l’impossibilità del progetto genocida su cui si è fondata finora la loro identità “nazionale”, tentare davvero la strada della convivenza e della collaborazione potrebbe essere una buona idea, una ricetta per incominciare finalmente a vivere meglio. E’ chiaro che questi pensieri, la tentazione della “normalizzazione”, sono una minaccia mortale per un vertice burocratizzato che ha fondato il proprio potere sul terrorismo e sulla rapina degli aiuti internazionali. E’ urgente per loro trovare delle ragioni propagandistiche per tenere in vita il vecchio gioco mortifero, magari in attesa che i vecchi luoghi comuni antisraeliani tornino di moda a Washington, grazie a una vittoria di Biden in cui sperano molto. A questo può servire anche una propaganda grossolana come il processo alla Dichiarazione Balfour.