Oggi, 2 novembre, giorno della commemorazione dei defunti in Occidente, si festeggerà a Londra il centenario della Dichiarazione Balfour, mai morta, come tutti i documenti storici importanti. Si tratta della lettera con cui il 2 novembre del 1917, l’allora Ministro degli Esteri di Sua Maestà, Lord Arthur Balfour attestava a Lord Lionel Rothschild, che sì, il governo inglese era disposto a riconoscere al popolo ebraico un “focolare” in Palestina.
Non si trattò da parte inglese di un atto di magnanimità fondato sul riconoscimento della idealità sioniste, ma fondamentalmente un calcolo politico. Nel contesto della Grande Guerra e delle turbolenze in Medioriente, gli inglesi calcolavano che avere dalla loro parte il movimento sionista sarebbe stato utile ai fini di contrastare la Germania. Si sarebbe visto poi, in corso d’opera, cosa fare, come gestire la situazione. Intanto si provvide a piantare un bel paletto.
Ed è così che cominciò la storia che ancora oggi si dipana davanti ai nostri occhi. Un grande impero, come fu prima di esso quello romano, che concede la possibilità a un piccolo e longevo popolo-il quale millenni prima, a causa della seconda caduta di Gerusalemme sotto mano romana, per l’appunto, si disperse in giro per il mondo-di fare ritorno là, in quella terra da dove era cominciata la sua storia. Storia fatta di catastrofi e di una indomabile perseveranza, la stessa che animava il movimento sionista nella sua volontà di emancipare finalmente gli ebrei dalla loro sudditanza conferendogli una patria in cui sarebbero stati solo loro gli artefici del proprio destino.
Come è andata lo sappiamo. Fin da subito, con l’eccezione di una sparuta minoranza araba che vedeva nell’arrivo degli ebrei in numero elevato una opportunità di sviluppo e di benessere, le leadership locali opposero quel gran rifiuto che non deflettete mai, anche quando, dieci anni dopo la Dichiarazione Balfour, nel 1937, la Commissione Peel propose agli arabi, dopo i giri di valzer inglesi che avevano ridimensionato assai le prospettive ebraiche, circa il 75% del territorio. Agli ebrei sarebbe spettato un ministaterello, un 20% distribuito in Galilea e nei settori settentrionali e centrali della pianura costiera. No, fu la risposta. Le condizioni le avrebbero poste solo loro nonostante la prodigalità inglese divenuta per calcolo politico filoaraba. Non se ne fece nulla e nulla se ne sarebbe fatto nulla fino al 1948, quando Israele nacque e subito si cercò di sopprimerlo in culla. L’azione non riuscì, e di nuovo si tentò nel 1967, ma anche in quella circostanza fallì, e poi ancora nel 1973 e poi con due intifade, la più sanguinosa, quella del 2000-2005, un regno sanguinoso del terrore sotto l’egida di Yasser Arafat, insignito precedentemente del Nobel per la Pace. Pur mettendo il paese a dura prova, anche in quel caso gli arabi dovettero rendersi conto che Israele, diventato nel frattempo una potenza militare di efficienza e ardimento leggendari, non se ne sarebbe andato.
Siamo quindi tornati oggi a Londra, cento anni dopo la missiva recapitata dal patrizio inglese “goy” al suo pari inglese ebreo. Siamo alla contestazione prevedibile da parte palestinese di questa ricorrenza considerata una tragedia e non quale fu fin da principio, una straordinaria opportunità. Tuttavia, va detto, tragedia per gli arabi è stata, ma per le ragioni opposte a quelle dichiarate da Abu Mazen. Non perché la Dichiarazione Balfour abbia creato le condizioni politiche per il venire in essere dello Stato ebraico, ma per l’ostinazione perenne e autolesionista del mondo arabo e musulmano nel non volere riconoscere agli ebrei la legittimità di potere costruire un proprio stato in quella terra dalla quale la loro memoria e la loro storia non si sono mai staccate nei millenni.
Come ebbe a dire uno dei massimi studiosi e pensatori ebrei del Novecento, Gershom Scholem:
“Il ricordo della ‘terra d’Israele, della Palestina, è stato infinitamente vivo nel popolo ebraico…Il ricordo che gli ebrei hanno della Palestina è una realtà, le aspirazioni ebraiche all’assimilazione tentarono di combattere questo ricordo, e tuttavia non si è riusciti a cassare Gerusalemme e Sion dalle preghiere ebraiche di 2000 anni”.
Non è dunque con la storia riscritta dalle risoluzioni UNESCO che arabizzano il Monte del Tempio e il Muro Occidentale e consegnano a uno stato palestinese esistente solo sulla carta le tombe dei patriarchi a Hebron, che si possa pensare di cancellare questa indelebile e perenne eredità. Così come non è con la sua assenza alla cena organizzata per il centenario della Dichiarazione, in presenza di Theresa May e Benjamin Netanyahu, che il leader del partito laburista inglese, Jeremy Corbyn, possa incidere su i fatti. E i fatti sono che la Dichiarazione Balfour è stata per gli ebrei la piattaforma per proiettarsi in quel futuro che da sempre li accompagna e la grande occasione persa fino ad oggi dei suoi antagonisti arabi, perenni prigionieri del passato.