Chanukkà: la lotta per la conservazione dell’identità ebraica

Ugo Volli
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Ebraismo

Chanukkà: la lotta per la conservazione dell’identità ebraica

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Ugo Volli
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chanukka-identita-ebraica-progetto-dreyfusChanukkà: la lotta per la conservazione dell’identità ebraica. Dopo la grande densità delle feste d’autunno che segnano l’inizio dell’anno e un paio di mesi invece del tutto privi di ricorrenze, nel calendario ebraico arriva ora Chanukkà: una bella festa, che piace molto ai bambini, con le luci da accendere che crescono ogni sera, l’inno da cantare (Maoz tzur) che usa una musica facile e allegra; le frittelle salate e soprattutto quelle dolci della cucina tradizionale; il mercatino dei regali; la storia di un miracolo piccolo piccolo e apparentemente familiare, un nome positivo e bene augurante: Chanukkà cioè “inaugurazione”.

Molte religioni hanno una festa intorno al solstizio d’inverno, quando il sole sembra sempre più debole e c’è bisogno di luci per vincere l’incipiente depressione. Anche nella nostra società post-religiosa, famiglie del tutto lontane da ogni fede appendono ai balconi ghirlande di lampadine colorate, fanno shopping e regali, accendono falò e fuochi d’artificio per vincere il buio e cercare stare allegri.

Chanukkà è diversa, non celebra la resurrezione del sole o la nascita di un dio, ma più modestamente, nella benedizione che si pronuncia ogni sera per otto volte, “i prodigi, le meraviglie, le salvezze, le consolazioni”che la bontà divina operò “per i nostri avi in quei giorni in questo periodo”. E’ una spiegazione un po’ generica, che viene solo in parte precisata in un’aggiunta speciale per quei giorni alla preghiera principale della liturgia ebraica (l’Amidà), in cui oltre che di miracoli si parla di “battaglie” sostenute dal Cielo per i nostri avi, sicché “il forte fu sconfitto dal debole, i molti dai pochi, l’impuro dal puro, il peccatore dal giusto, l’arrogante dallo studioso”. Anche qui non è chiaro e per capire di che cosa si tratta bisogna conoscere la vicenda, che non è raccontata nelle Scritture ebraiche come per esempio la storia di Ester, perché i libri dei Maccabei che raccontano la loro lotta per preservare l’ebraismo con molti dettagli miracolosi, stranamente non sono stati accettati nel canone ebraico e figurano solo in quello cristiano.

Il Talmud ne parla nel trattato di Shabbat (21b), ma solo incidentalmente in mezzo a discussioni rituali sul numero di luci da accendere e sulla loro sistemazione. L’accento è messo sul miracolo dell’olio: “i greci entrarono nel tempio, profanando tutto l’olio, e quando la dinastia Asmonea [i Maccabei] prevalse e li sconfisse, fu trovato solo un vaso d’olio con il sigillo del Grande Sacerdote: bastava per tener acceso il lume perpetuo un solo giorno. Si verificò un miracolo e la luce durò otto giorni.

La scelta del Talmud, seguita poi dai testi liturgici, è quella di concentrarsi sul miracolo piccolo ma altamente simbolico dell’olio e della luce, ignorando gli Asmonei (che da pii in quella generazione divennero poi rapidamente empi e nemici della religione, in particolare dei Farisei), ma soprattutto tacendo della guerra da essi sostenuta nell’anno 165 aEV, che pure è l’ultima vinta dal popolo ebraico prima della ricostituzione dello Stato di Israele. La ragione probabilmente sta nella volontà di non parlare dell’eroismo dei Maccabei (che è esaltato nei libri omonimi), ma forse anche di non sottolineare il fatto che si trattò soprattutto di una guerra civile, non di un semplice conflitto di liberazione dca un’oppressore straniero.

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Ci è rimasta una narrazione molto precisa del contesto politico e delle tappe di questa guerra nel libro XII delle Antichità giudaiche di Giuseppe Flavio: nel terzo secolo una parte consistente del popolo ebraico si era deciso ad aderire ai costumi ellenistici allora egemone nel Mediterraneo, a imitare l’educazione classica e i modi di vita greci, ad abbandonare la religione dei padri, la circoncisione, le regole alimentari, lo Shabbat. Il re siriaco (ma di discendenza greca) Antioco IV Epifane intervenne con molta violenza in appoggio a questa tendenza, proibendo sotto pene capitali ogni pratica ebraica, e ne approfittò per impadronirsi di Gerusalemme e saccheggiare i tesori del Tempio. Ma appena incontrata una resistenza abbastanza accanita da parte della guerriglia guidata dai Maccabei, il suo esercito si ritirò, perché Antioco non aveva le regioni geopolitiche che due secoli dopo avrebbero portato i romani a tenere con ad ogni costo la Giudea. La lotta rimase principalmente interna al popolo ebraico, fra una frazione prevalentemente urbana e nobile che voleva l’assimilazione alla civiltà egemone del tempo e chi, soprattutto in campagna e fra i poveri, si opponeva all’abbandono della Legge come dell’indipendenza. E fu una lotta sanguinosa, una vera guerra civile. Importantissima perché da essa dipese il fatto che l’identità ebraica non venisse assorbita nella koiné ellenistica e poi romana, perdendo ogni autonomia, come avvenne a quasi tutti i popoli del Mediterraneo, compreso il potente Egitto. Si tratta di un modello di resistenza culturale e religiosa oltre che militare, che ancora è attivo nella coscienza ebraica.

Dopo la sconfitta con Roma (70 e.V.), ormai espulsi da Gerusalemme e gradualmente costretti all’esilio, i maestri della Mishnà e del Talmud scelsero di inserire nel calendario ebraico quest’ultima festa che celebra il duro combattimento per la fedeltà alla tradizione. Ma preferirono non sottolinearne gli aspetti militari, divenuti chiaramente impraticabili soprattutto dopo il fallito tentativo di rivolta di Bar Kochba (135 e.V.), essendosi convinti che la lotta per la sopravvivenza dell’ebraismo si poteva condurre solo in termini di educazione, di memoria, di normativa, di resistenza morale e spirituale. Solo così era possibile assicurare la sopravvivenza del popolo ebraico e della sua tradizione in una condizione di estrema debolezza. Questa scelta determina ancore il carattere apparentemente innocuo e marginale della celebrazione di Chanukkà.

Oggi, in un’epoca in cui un certo grado di assimilazione culturale o di globalizzazione è dominante nel popolo ebraico, il messaggio implicito della festa potrebbe suonare integralista e pericoloso. Ma si tratta naturalmente di interpretarlo ragionevolmente e di coglierne il senso centrale. Che, come capirono i saggi del Talmud, non è quello della guerra civile degli osservanti contro gli assimilati, ma della necessità di conservare l’identità ebraica contro ogni tentazione di oblio. Come Purim, la penultima festa che cerca di insegnare la resistenza all’antisemitismo nella condizione dell’esilio, condotta con coraggio, ma anche con astuzia e dissimulazione, anche quella di Chanukkà contiene una lezione e una promessa che insieme è religiosa e politica: “il forte può essere sconfitto dal debole, i molti dai pochi, l’impuro dal puro, il peccatore dal giusto, l’arrogante dallo studioso”. A patto che operi per tener acceso il lume della tradizione e dell’identità ben al di là di quanto si penserebbe possibile e si sforzi di renderlo più intenso e visibile ogni giorno. Perché, come amava ripetere Ben Gurion, in Israele chi non crede nei miracoli non è realista

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