Quando Sergio Mattarella nominò Stefano Gaj Taché durante il discorso del suo insediamento, la memoria collettiva della Comunità Ebraica di Roma coincise con la memoria collettiva del paese. Il ricordo del Presidente della Repubblica tolse la coltre di silenzio che fino a quel momento aveva contraddistinto l’attentato alla Sinagoga Maggiore di Roma in quel lontano 9 ottobre del 1982, quando il più piccolo della famiglia Gaj Taché perse la vita e decine di persone rimasero ferite per mano del terrorismo palestinese.
Fino a quel 3 febbraio del 2015, la Repubblica italiana aveva voluto dimenticare una delle pagine più nere della propria giovane storia. Nel momento in cui Mattarella pronunciò quel nome, molti media e agenzie di stampa si affrettarono per sapere di più su quel bambino di due anni dimenticato da quello Stato che avrebbe dovuto proteggerlo. Subito dopo uscirono diversi articoli sul web che ripercorrevano l’attentato e fotografavano il clima di un paese che per anni era stato terreno fertile per il terrorismo internazionale.
Oggi, 9 ottobre 2017, cosa rimane di quell’attentato?
Ed è qui che la memoria collettiva di una piccola comunità e quella di un paese tornano a non coincidere. Per l’Italia Stefano Gaj Taché è solo un nome su una lapide, per la Comunità Ebraica di Roma è un figlio che non ha visto crescere. Una differenza abissale, che diventa incolmabile quando all’indomani di un attentato in Europa, ci si chiede il motivo per cui l’Italia sia stata risparmiata dal terrorismo islamico.
L’Italia non è stata risparmiata, ma colpita al cuore. È vero, quello a cavallo degli Anni 70 e 80 era un terrorismo islamico diverso rispetto a quello a cui sia abituati oggi, ma non per questo meno vigliacco e assassino.
Di quel maledetto giorno rimane il ricordo che la Comunità Ebraica è riuscita con dolore a tramandare alle generazioni successive, che non dovranno mai dimenticare che in Italia la ferocia del terrorismo islamico ha già seminato morte e terrore.