La storia di Ahmad
Una leggerezza – mi confermano coloro che lo conoscevano – è stata commessa da Ahmad quando, nell’aprile del 2016, ha scelto di tornare a Teheran, nella sua patria. Una leggerezza che avrebbe commesso solo un innocente, una leggerezza dovuta forse ad una concreta e seria difficoltà nel capire le condizioni politiche nel quale versa la Repubblica Islamica dell’Iran in questo momento. Ma chi ha capito veramente di quale problema politico si sta parlando?
Il caso è controverso e tante questioni dovrebbero essere tirate in ballo, non solo, come hanno fatto i giornali, l’indignazione italiana ed europea, che da decenni investono e fanno affari con un paese che i diritti umani non li ha mai rispettati. La libertà di ricerca, una delle libertà più sacre dei nostri tempi, ma anche la sicurezza, altra tematica intoccabile da quando l’Europa sta affrontando la minaccia ISIS, e il diritto di tutte le nazioni del mondo a difendere se stesse dalla intromissioni esterne.
Libertà contro Sicurezza, una lotta intestina che affrontiamo giorno dopo giorno, in Italia come in Israele, in Europa, negli Stati Uniti, e ovviamente anche in Iran, una Teocrazia Sciita sviluppata e moderna, che non ha intenzione di mettere da parte la Giurisdizione Islamica e che si ostina a minacciare Israele e tutte le nazioni che sostengono lo stato ebraico.
Ma andiamo per ordine, cercando di analizzare tre situazioni parallele: la sensibilità delle tematiche studiate da Ahmadreza, la sua storia personale, e il problema della libertà di ricerca, che coinvolge tutti noi, italiani, israeliani, cittadini del mondo.
Ahmad lavora dal 1997 al 2007 in Iran, studiando nell’ambito della medicina di emergenza le eventuali possibili risposte a disastri naturali e a catastrofi biologiche e chimiche. Lavora in ambito pubblico, al Ministero della Salute prima e in diversi centri le cui ricerche hanno avuto, tra l’altro, anche finalità in ambito militare. Nel 2008 viene accettato per un Dottorato di Ricerca al “Karolinska Institutet” di Stoccolma, e nel proseguimento della sua carriera accademica continua a viaggiare per e da Teheran, tenendo numerose conferenze e partecipando a diversi progetti.
Secondo quanto riportato dalla “misteriosa fonte anonima” che avrebbe avuto contatti con il ricercatore da dopo l’arresto, nel 2012 è arrivato il primo incontro tra Ahmad e i servizi segreti iraniani. In quell’occasione gli è stato proposto di collaborare ad un progetto in ambito militare, un’offerta rifiutata sin dal principio. Successivamente il ricercatore si è trasferito a Novara e ha proseguito con il “post-doc” e la carriera di ricercatore presso il CRIMEDIM (Research Center in Emergency and Disaster Medicine), all’interno dell’Università del Piemonte Orientale. Qui il ricercatore ottiene un assegno di ricerca e viene coinvolto in una serie di Progetti Europei, iniziando parallelamente ad occuparsi di risposta alle minacce CBRN (in Europa) e ad entrare in contatto con accademici provenienti da tutto il mondo. Per due volte nell’arco del 2014 Ahmad viene avvicinato nuovamente da membri dell’Intelligence e dell’esercito Iraniani, nel corso di alcune conferenze tenute nella Repubblica Islamica. Per due volte ancora a Ahmad viene chiesto di fornire informazioni circa le infrastrutture critiche e la condizione di capacità in ambito CBRN e di risposta ad eventuali attacchi CBRN nei diversi Stati Europei all’interno dei quali aveva accesso ad informazioni sensibili. Nuovamente, la risposta del ricercatore è stata negativa, e coloro che erano stati inviati a richiederne l’aiuto a spiare “l’Europa” gli hanno assicurato la continuazione della cooperazione con l’Università di Teheran. Nella primavera del 2016 dopo aver tenuto una serie di ulteriori altri discorsi riguardo l’organizzazione ospedaliera durante e dopo le catastrofi in ambito CBRN in Iran, durante un viaggio accademico a Teheran, è stato catturato e accusato di “aver agito contro la sicurezza nazionale”. Le accuse non-ufficiali sono numerose, in primo luogo la collaborazione con Israele iniziata, secondo loro, nel 2008 e il trasferimento all’intelligence israeliana di dati rilevanti circa le infrastrutture sensibili Iraniane.
Di che tratta l’ambito CBRN e perché chi se ne occupa dovrebbe innanzitutto studiare la Geopolitica
Non tutti gli ambiti di ricerca e di studio sono uguali. Lo sviluppo della scienza, della medicina e della tecnologia è interconnesso, che lo si ammetta o meno, all’utilizzo di queste innovazioni in ambito militare. Basti pensare alle ricerche nell’ambito della fisica nucleare: Enrico Fermi, Albert Einstein, Robert Oppenheimer e Marie Curie hanno cambiato le sorti della scienza mondiale, ma hanno anche contribuito alla scoperta e alla produzione delle armi più distruttive della storia. Fu proprio il prestigioso Progetto Manhattan a produrre la prima bomba nucleare, e per quanto poi le ricerche in ambito nucleare siano stati indispensabili alla creazione di un nuovo modo di convertire e distribuire energia, le stesse ricerche hanno direttamente condotto alla morte di duecentomila giapponesi. Insomma, il ventesimo secolo è stato il secolo dell’innovazione e delle scoperte scientifiche, ma anche il secolo delle grandi guerre e delle armi di distruzione di massa. Il settore CBRN si occupa di materiali chimici, biologici, radiologici o nucleari che potrebbero essere utilizzati o inseriti all’interno di armi, esplosivi o anche semplicemente nelle acque e negli alimenti, per causare contaminazione, malattie infettive, radiazioni o anche esplosioni nucleari. Si parla di “Incidenti” in ambito CBRN quando, a causa di un errore umano o per motivi naturali, si viene a creare un rilascio di queste sostanze che vengono a contatto con gli esseri umani, e si cerca di studiare i modi migliori per contrastare questi incidenti e per, eventualmente, rispondere agli effetti degli stessi. Ma il rischio CBRN non è connesso solo ad eventuali “incidenti”, ma anche a gesti intenzionali come attentati terroristici. Ciò che differenza la risposta ad una classica emergenza dall’emergenza CBRN è attualmente oggetto di studio e richiede una conoscenza approfondita della chimica e della biologia, cosi come richiede che le nazioni dispongano di sistemi di decontaminazione, farmaci specifici, trattamenti medici adeguati, personale preparato al rischio Chimico e Biologico ecc. Non dovremmo stupirci quando uno scienziato che si occupa di CBRN viene “avvicinato” da militari con l’aria di chi vuole utilizzare quelle scoperte come arma contro un nemico.
Furono i tedeschi, durante la prima guerra mondiale, ad utilizzare per primi questo tipo di armi. In particolare l’armata tedesca rilasciò 180 tonnellate di Iprite (o Gas Clorino), la cui dispersione atmosferica asfissiò quindicimila soldati Francesi, Canadesi e Algerini.
Nell’ambito CBRN, inoltre, rientra anche la minaccia nucleare, poiché anche questo ambito rientra negli studi delle tecnologie “Dual Use”, ovvero tutte innovazioni in ambito civile che potrebbero essere utilizzate anche in ambito militare. Come sappiamo, il tema del Nucleare Iraniano è particolarmente delicato, in quanto l’Iran ha sempre tenuto un comportamento abbastanza ambiguo a riguardo. Pur dichiarando di non possedere alcun arsenale nucleare, i livelli di arricchimento dell’Uranio in Iran hanno raggiunto, nel decennio scorso, la soglia limite per la produzione di energia nucleare. Se su una scala da uno a dieci fosse necessario un tre per produrre energia nucleare e servisse un nove per fabbricare una bomba, l’ambiguità iraniana sta nel non possedere bombe, avendo comunque superato di gran lunga la soglia del quarto o quinto gradino. Inoltre, i principali siti nucleari iraniani sono, ancora oggi, protetti da numerosi missili s-300, a dimostrare quanto la Repubblica Islamica ci tenga a proteggere tali strutture.
Insomma, questi piccoli dettagli aiutano a capire, per chi non lo sapesse, che il nucleare e tutte le tecnologie Dual Use, comprese le chimiche e le biologiche, che possono essere utilizzate da un paese in un’area instabile come arma di deterrenza per scongiurare un attacco nemico, sono considerate parte di un ambito di ricerca particolarmente delicato e sensibile. Come durante la Guerra Fredda l’isteria pervadeva la politica sovietica e statunitense, convinte che ci fossero spie del nemico ad ogni angolo, e come gran parte dello stesso conflitto si giocò sulla quantità di armi nucleari possedute e sul confronto circa la distruttività delle stesse, cosi oggi ci ritroviamo ad osservare la “Guerra Fredda – ma non troppo” tra Iran e Israele. Armi CBRN, questione nucleare, Guerra per procura che coinvolge tutte le milizie della zona, dai Curdi a Hezbollah, dal terrorismo palestinese alla questione Yemenita. Tutto ciò che accade nel Medio Oriente risponde, da dieci anni a questa parte, alla precisa necessità di Israele e Iran di assicurarsi la superiorità strategica rispetto all’altro. E forse questo, un iraniano, avrebbe dovuto saperlo.
La questione delle accuse
Se si parte con la premessa che Ahmad non sia una spia, non si arriva a comprendere il senso di quello che sta accadendo. Ahmad CERTAMENTE non è una spia. Non è una spia perché ha toccato troppe volte il suolo iraniano dopo il 2008, non è una spia perché la sua incolumità non è stata assicurata correttamente da nessuno. Ma osserviamo la questione da un altro punto di vista. Ahmad potrebbe aver sostenuto, nella fase di accusa – di cui noi italiani non abbiamo alcun documento ufficiale – di non aver collaborato con Israeliani. Questo non è vero, in quanto nell’ambito del progetto europeo iniziato con il CRIMEDIM, almeno un collega israeliano c’era all’interno dell’Advisory Board (e come poteva non esserci, considerando l’internazionalità del progetto). Questo potrebbe essere il contatto a cui l’accusa fa riferimento, nonostante lui e il collega non avessero mai firmato una ricerca insieme.
Potrebbe esserci un’altra questione in ballo, quella della ricerca firmata da Ahmad e contemporaneamente da una dottoranda saudita, una ricerca portata poi a Riyad nell’ambito di un corso di formazione. Anche qua non serve un genio per comprendere la delicatezza della questione. Nonostante Ahmad non abbia mai messo piede in Israele o in Arabia Saudita, aver avuto contatti con dei ricercatori provenienti da questi paesi avrebbe certamente avuto – a lungo andare – conseguenze negative per il proseguimento della propria carriera in Iran.
Negare la libertà di ricerca in un mondo globalizzato
Partire dal presupposto che Ahmad non abbia avuto contatti con Israeliani o con Sauditi o chiunque il governo iraniano stia, nella sua totale follia, giudicando ostile, significa nuovamente non aver compreso il problema a monte. Giustificare di avere un amico o un collega Israeliano, questo è il problema alla radice. Le Università Italiane e le Università europee non sembrano al corrente del fatto che tutti gli accordi di ricerca siglati con l’Iran (ad esempio l’accordo bilaterale per la collaborazione congiunta nel campo della Salute dei Farmaci e delle Apparecchiature Mediche in vigore da Gennaio 2016 ) perdono ogni validità quando si tratta, anche se solo di prendere un caffè con un collega, di portare uno scienziato iraniano a trovarsi a meno di dieci metri di distanza da un Israeliano.
La libertà di ricerca è uno dei valori fondanti della nostra Costituzione e forse uno dei valori fondanti di tutte le costituzioni europee e occidentali. Forse, l’errore è stato pensare che l’Iran ponesse un valore del genere al di sopra della legge interna, che attualmente lascia giudicare coloro che sono accusati di spionaggio non da un tribunale tradizionale, bensì dal tribunale rivoluzionario creato nel ’79 per condannare a morti i dissidenti politici. Un tribunale, quello rivoluzionario, che non risponde nemmeno al Presidente Rouhani.
Insomma, di casi di scienziati iraniani che studiano tecnologie Dual Use e che sono stati messi sotto accusa, o peggio condannati, ce ne sono parecchi. Il caso di Shahram Amiri è emblematico: condannato a morte nel 2016 dopo essere stato arrestato nel 2010 con l’accusa di aver rivelato segreti nucleari iraniani agli Stati Uniti. Il caso di Omid Kokabee, fisico iraniano che ha studiato in Texas, catturato dalle forze dell’ordine iraniane nel 2011 durante una visita ai genitori, e condannato a dieci anni di prigione per spionaggio.
In sostanza, a fronte della realtà politica e geopolitica in cui viviamo, l’Italia e l’Europa dovrebbero prendere coscienza della delicatezza di alcuni tipi di ricerca quando si parla di mettere insieme persone che rispondono a leggi di nazioni che non hanno molta simpatia per i diritti umani. Indignarsi serve a poco quando c’è un ricercatore che sta per perdere la vita, un ricercatore che è cittadino del mondo come tutti noi e che avrebbe volentieri messo a disposizione le sue competenze per qualsiasi nazione, senza distinzione di bandiera. Eppure nell’isteria generale è arrivato il momento di guardarle quelle bandiere, di capire che se gli esseri umani sono tutti uguali, non tutte le bandiere godono dello stesso privilegio. Molti diritti e libertà che a noi sembrano scontate, in alcune zone del mondo non lo sono. La cessione della sovranità ad organi sovranazionali e organizzazioni internazionali che passa per la firma e la ratifica degli accordi, non rappresenta necessariamente un vincolo per tutte le nazioni. L’Iran come ogni altra nazione del mondo ha una propria cultura, una propria legge e una propria politica che non può in alcun modo essere separata dalla ricerca scientifica. In sostanza, in questa storia ci vedo un importante errore delle Istituzioni Europee e Italiane, che non hanno saputo valutare la delicatezza degli argomenti trattati dalla ricerca e non hanno garantito al meglio l’incolumità di Ahmad, anche semplicemente sconsigliandogli di valutare un rientro a Teheran.
La condanna e la mobilitazione
Non sappiamo molto di Ahmad da quando è entrato nella prigione di Evin. Luca Ragazzoni, collega di Ahmad e ricercatore del CRIMEDIM è riuscito a sentirlo telefonicamente 3 volte dall’arresto, più di un anno e mezzo fa. Le notizie sulla condanna sono giunte solo tramite l’avvocato alla moglie, che risiede a Stoccolma con i due figli di Ahmad. Su “La Repubblica” si parla di una detenzione atroce, tra torture fisiche e psicologiche, umiliazioni e minacce. L’accusa non dispone di dati cartacei circa le presunte attività di spionaggio, ciononostante il ricercatore è stato costretto a leggere una confessione falsa di fronte al Giudice. Pochi giorni fa è arrivata la condanna a morte, una sentenza che in Iran colpisce centinaia di persone ogni anno, compresi bambini, e per tutti coloro che si macchiano i reati come il consumo e lo spaccio di Droga, l’essere Omosessuali, Blasfemi, o anche semplicemente per chi tiene atteggiamenti eccessivamente “lussuriosi”.
Il Dott. Luca Ragazzoni, ricercatore del CRIMEDIM ed Eleonora Mongelli della Lega Italiana per i diritti dell’uomo si sono mobilitati sin dall’arresto di Ahmad, non solo per dare risonanza alla sua storia e per far sì che se ne parlasse nei media, ma anche e soprattutto per interrogare le istituzioni italiane ed europee in merito a quanto accaduto. La storia del ricercatore è circolata in ogni angolo del globo grazie all’interesse ed al coinvolgimento crescente di diverse organizzazioni per i diritti umani, tra cui Amnesty International, che ha lanciato una campagna di sensibilizzazione sulla sezione italiana del sito web; e l’Iran human rights, Il cui direttore Mahmoud Amiry-Moghaddam, che ha rilasciato dichiarazioni a media iraniani condannando l’iniquità del processo a cui Ahmad è stato sottoposto. La raccolta delle firme ha superato le 260 mila partecipazioni, e fortunatamente la questione sta coinvolgendo anche diversi senatori e parlamentari, tra cui Elena Ferrara, Luigi Manconi, Elena Catteneo e almeno altri cento parlamentari firmatari. Anche durante la Sessione del Consiglio ONU per I Diritti dell’Uomo si è parlato di Ahmad, grazie al discorso del Dott. Ragazzoni, e i tre rettori delle università coinvolte in collaborazioni con il ricercatore iraniano (Karolinska Institutet, Università del Piemonte Orientale e Vrije Universiteit Brussel) hanno unito le proprie forze in una lettera indirizzata a Sadegh Larijani, a capo del sistema giuridico iraniano.
L’appello
PROGETTO DREYFUS non si batte solo contro l’antisemitismo e la discriminazione, oggi abbiamo scelto di condividere questa storia con i nostri lettori per iniziare una nuova battaglia, come ebrei, come italiani, come cittadini del mondo libero e democratico. Per questo ci uniamo agli appelli e alle voci di coloro che conoscono Ahmad e di coloro che vorrebbero salvare la vita ad un ricercatore il cui lavoro ha ed avrà in futuro un’importanza fondamentale nell’ambito della medicina di emergenza. La libertà d’informazione è il proposito con cui nasce il nostro progetto e la libertà di ricerca è un obiettivo contiguo, se non primario, che ogni istituzione dovrebbe garantire, a prescindere dagli interessi politici ed economici che albergano alla radice dei rapporti tra occidente e Iran.
La Pagina Facebook “Research scientist threatened to death in Iran”: https://www.facebook.com/freeahmadreza/
La Petizione: https://www.change.org/p/hassanrouhani-ahmadreza-djalali-medico-ricercatore-condannato-a-morte-in-iran