Tra i pochi eventi di portata storica del 2020 oltre all’emergenza sanitaria, i cosiddetti “Accordi di Abramo”, ovvero l’inaugurazione dei rapporti diplomatici tra Israele e alcuni paesi islamici. Un fenomeno destinato a spostare gli assetti con un’onda d’urto superiore a quella di una guerra, che però non ha necessitato di spargimenti di sangue o traumi come quelli che sovvertono un ordine duraturo.
La portata degli Accordi è stata ampiamente sottovalutata dall’opinione pubblica, probabilmente a causa del gruppo che li ha resi possibili: il premier israeliano Netanyahu, il Presidente degli Stati Uniti Donald Trump e le monarchie del Golfo. Tutti attori indigesti ad una certa platea, quella per intenderci che concesse in fretta e furia il premio Nobel a Barak Obama – anticipando quello che non avvenne mai – negando loro anche solo una modesta apertura a fronte di un innegabile risultato storico.
Una veloce ricerca su Google svela che per il termine in inglese conta solo 830mila risultati. Analizzando i trend dell’ultimo anno, scopro addirittura che “gli accordi” sono, per volume di ricerca, inferiori addirittura al termine “intifada”, la cosiddetta “rivolta delle pietre”, che ormai risale a più di trent’anni fa. Stessa cosa se paragoniamo la query “abraham accord” all’espressione “arab spring”, riferito a quella stagione morta e sepolta che avrebbe dovuto portare una ventata profumata di riforme, diritti, libertà politica e fine della corruzione nei paesi di Ben Ali, Gheddafi, Mubarak e Assad. Con l’eccezione di qualche giorno a settembre, lo sventolio di bandiere con la stella di David accanto a quelle verde-rosso-nero degli arci-nemici di sempre ottiene volumi 3-4 volte inferiori a vicende consegnate alla storia, che però continuano ad avere una inspiegabile fascinazione. Eppure le distensioni tra Israele e Emirati Arabi, Bahrein, Marocco e Sudan sono avvenimenti freschissimi, con implicazioni enormi. In italiano manca addirittura la voce su Wikipedia, voce che sto contribuendo a costruire, sulla falsa riga di quella già presente in altre lingue.
E gli accordi non sono un evento terminato: si parla addirittura di un riavvicinamento clamoroso, quello con l’Arabia Saudita, e sull’esempio del Marocco, molti paesi islamici del Sahel come Mauritania, Mali, Niger, Burkina Faso potrebbero mettersi sulla scia del primo terzetto. Un quadro che muterebbe in maniera improvvisa equilibri che duravano da decenni, costringendoci a rivedere tutte le mappe geopolitiche con enormi ripercussioni sul traffico di merci e persone e – soprattutto – aprendo enormi opportunità dal punto di vista turistico, culturale, militare ed economico.
I veri protagonisti di questa rivoluzione – di cui gli accordi sono solamente il sigillo ufficiale – sono i popoli stessi, l’economia, e in particolare modo la tecnologia. Gli israeliani e i vicini per esempio già hanno legami sviluppati al livello individuale, sebbene le proibizioni dei governi a familiarizzare con il “nemico sionista”. A livello più alto i governi vedono grandi vantaggi anche per lo scambio a livello militare e l’esigenza di fare un fronte compatto contro nemici comuni. Una prospettiva forse meno nobile, ma sicuramente pragmatica, una sorta di matrimonio d’interesse, innegabile, ma con degli eccellenti presupposti per far sbocciare un amore duraturo.
Si dice che c’era una sola cosa che i nemici dello Stato Ebraico temessero più della guerra con Israele: era la pace, con Israele. Per questo non dovremo avere la tentazione di dare per scontato queste distensioni. Se diamo per falliti gli accordi di Oslo, gli unici precedenti sono stati la pace con l’Egitto del 1979 e quella con la Giordania nel 1994. Ed è sempre un evento quando leader arabi coraggiosi stringono la mano a politici israeliani, rompendo il tabù dell’antisionismo, quando ad “andare al letto con il nemico” si rischia la vita (o la si perde direttamente, come Anwar al-Sadat nel 1981). Non sono da minimizzare l’impatto delle nuove rotte aeree, che “rompono” decenni di evoluzioni impossibili nei cieli degli aerei israeliani per evitare il sorvolo dei paesi proibiti né le celebrazioni degli ebrei marocchini che dopo 2.500 anni di convivenza “difficile” vedono coronare il sogno di poter apertamente dichiarare il legame con la loro seconda patria. Dovremmo rallegrarci anche per le epurazioni delle associazioni tra i ratti e il nemico sionista nei testi scolastici sauditi, e alla notizia che Israele ed Emirati hanno aperto un tavolo per lo smantellamento della famigerata agenzia URNWA, uno dei più grandi ostacoli alla pace e bastione del filo-palestinismo.
Questo 2020 non è completamente da buttare, dunque: in quest’anno ha fatto capolino l’alba di un nuovo medioriente dopo una notte durata fin troppo tempo. Mentre il sole sale, Israele finalmente si scopre non più come causa dell’instabilità dell’area, ma come cuore della soluzione ai conflitti regionali.
Ho fatto tante riflessioni pessimiste sul futuro del conflitto, rassegnandomi allo stallo in cui si era finiti ed esortando Israele a decidere unilateralmente per la totale assenza di interlocutori ai quali tendere la mano. Oggi vedo una luce, che non è flebile come una candela, ma è potente come un faro. L’augurio che mi faccio per il nuovo anno è che l’innovazione, l’economia, il diritto al benessere al quale anelano tutte le nazioni continui la sua marcia inarrestabile in un circolo virtuoso che ispiri i governi, a loro volta ispirati dal cambiamento del mindset dei popoli del medioriente: possano vedere Israele e i suoi vicini la concreta realizzazione di questi accordi, per dare seguito – Beezrat Hashem e Inshallah – alla costruzione di un mondo migliore.