“Come scoprire se si è affermata una egemonia culturale? C’è un modo: se una qualsiasi falsificazione della storia viene messa in circolazione con intenti partigiani e se, dopo un po’ di tempo, si scopre che quella falsificazione è penetrata nelle menti di molti, diventando una verità di senso comune, una verità che le persone accettano come ovvia, auto-evidente, allora è possibile riconoscere che una egemonia culturale si è consolidata”. Così, Angelo Panebianco in un suo recente articolo sul Corriere della Sera.
La penetrazione della falsificazione è lo scopo principale della propaganda. Joseph Goebbels, insuperato maestro e promulgatore di undici dettami, così ne riassumeva icasticamente il presupposto egemone:
“La propaganda deve limitarsi a un piccolo numero di idee e ripeterle instancabilmente, presentarle sempre sotto diverse prospettive, ma convergendo sempre sullo stesso concetto. Senza dubbi o incertezze”.
Da qui proviene anche la frase: ‘Una menzogna ripetuta all’infinito diventa la verità’.
Il caso del conflitto arabo-israeliano rappresenta l’esempio più flagrante e clamoroso di come le immarcescibili idee di Goebbels siano vincenti. Dalla fine della Guerra dei Sei Giorni, cinquanta anni fa, si cominciò subito a fabbricare i capisaldi di quella che sarebbe diventata la più longeva macchina del fango costruita contro un popolo e uno Stato dalla caduta del nazismo e del comunismo. Va detto subito che, sia il nazismo che il comunismo hanno contribuito ottimamente al suo venire in essere, soprattutto il secondo. Senza l’aiuto essenziale dell’Unione Sovietica, la quale, da una iniziale adesione al sionismo in chiave antibritannica, passò poi rapidamente dalla parte degli arabi con la crisi del Canale di Suez del 1956, la “causa palestinese” non avrebbe potuto godere della risonanza mondiale di un formidabile know how diffamatorio.
Il capolavoro della alleanza russo-araba fu raggiunto il 10 novembre del 1975, quando l’Assemblea Generale dell’ONU (dai primi anni Sessanta trasformati in una solerete macchina da guerra anti-israeliana), passò con 72 votanti (tutti i paesi arabi e islamici, il blocco sovietico, diversi stati afroasiatici e la Cina, il Brasile, Cuba, l’India e la Jugoslavia) contro 35 (tutte le nazioni occidentali con l’eccezione della Grecia e del Portogallo in compagnia di numerosi stati latino americani e cinque stati africani) la Risoluzione 3379 che equiparava il sionismo al razzismo.
Fu il primo passo di quella stigmatizzazione progressiva e istituzionalizzata che ebbe il suo proseguimento nel luglio dello stesso anno a Città del Messico durante la conferenza internazionale dell’Anno delle Donne indetta dalle Nazioni Unite. Il testo redatto proclamava stentoreamente che la pace richiedeva “L’eliminazione del colonialismo, del neocolonialismo, l’occupazione straniera, il sionismo, l’apartheid e la discriminazione razziale in tutte le sue forme”. Nell’agosto dello stesso anno, a Kampala, l’organizzazione dell’Unità Africana rincarò la dose associando il regime razzista in Zimbabwe al “regime” israeliano, entrambi originati dall’imperialismo.
Pochi tocchi, aggiunte sapienti, parole magiche, affatturanti, come “colonialismo”, “razzismo”, “imperialismo”, “apartheid”, ed ecco preparata l’ipnosi collettiva, lo stordimento delle menti. Di nuovo, bisogna ascoltare il Dr. Goebbels, “La capacità ricettiva delle masse è limitata e la loro comprensione media scarsa, così come la loro memoria”. Battere il ferro continuamente, senza sosta. Creare una mitologia in cui Israele diventa un condensato di nequizie e i palestinesi le “vittime” di soprusi, pulizie etniche, genocidi. Allora ecco salire dal pozzo la feccia depositata sul suo fondo. Dorme la ragione, come nella celebre incisione di Goya. Allora spiccano il loro volo nero, allucinate immagini scaturite da Der Stürmer, la rivista antisemita nazista fondata da Julius Streicher. L’ebreo demonizzato, vampiro, impuro contaminante alieno della propaganda hitleriana si trasforma in israeliano, in soldato sanguinario, in colonialista prevaricatore e razzista. L’antisemitismo si maschera da antisionismo e il sionismo diventa una ideologia aberrante.
E’ solo del 1980 la fondazione, in Unione Sovietica del Comitato Antisionista per il Pubblico Sovietico. Splendido esempio orweliano di diffamazione burocraticamente strutturata. Il sionista è “sciovinista”, “militarista”, “perfido”, “ultranazionalista”, “antiumano”. Si sentono gli echi della voce di Adolf Hitler, “L’ebreo è colui che avvelena il mondo”. Sostituisci “sionista” ad “ebreo” ed ecco che il gioco è fatto, impudicamente trasparente ma non per questo meno efficace. La mente dei più è grossolana, ragiona per opposizioni binarie schematiche, bianco e nero, luce e tenebra, gioisce di archetipi primordiali, bene e male, amico e nemico.
Ancora nel 1989, racconta Robin Shepard nel suo A State Beyond the Pale, Europe’s Problem with Israel, circolava in Unione Sovietica un libro dal titolo emblematico, The Criminal Alliance of Zionism and Nazism pubblicato a Mosca quattro anni prima. E’ questa, naturalmente, l’associazione più immonda che può essere fatta nei confronti di Israele, il paragone dissacrante con il movimento di emancipazione che ne ha reso possibile il venire in essere e il regime che aveva fatto della distruzione totale del popolo ebraico uno dei suoi capisaldi. D’altronde, non è stato forse Abu Mazen a presentare presso il Collegio Orientale di Mosca nel 1982 la sua tesi negazionista dal titolo emblematico, La connessione tra nazismo e sionismo 1933-1945, nella quale il futuro presidente dell’Autorità Palestinese sottostimava le vittime della Shoah a poche centinaia di migliaia, ribadendo uno dei cavalli di battaglia della propaganda araba, che lo sterminio (per altro a suo dire ampiamente manipolato) degli ebrei sarebbe stata la causa (o meglio il pretesto) per il sorgere dello Stato ebraico?
La nazificazione di Israele è in perfetta continuità con l’assunto propagandistico e mitologico secondo il quale esso sarebbe uno stato imperialista e colonialista che non avrebbe alcuna ragione di esistere in una regione nella quale, quella araba, era la popolazione indigena ancestrale mentre gli ebrei sarebbero solo degli intrusi.
Questo apparato accusatorio e diffamatorio contro Israele è il più potente in atto contro uno Stato, da cinquanta anni a oggi. La sua potenza è dovuta al fatto che esso si compone di una stratificazione venefica senza precedenti, alla cui base c’è l’antica e originaria falda dell’antisemitismo classico che vede nell’ebreo un simbolo del male.