*articolo pubblicato su Il Foglio
“Stato di Palestina”, dietro queste due parole, che sembrano avere la massima priorità per l’ONU e per i governanti del mondo intero, si nasconde una realtà che appare sconosciuta ai più.
Nel mondo arabo non vi è una tradizione dello stato, e, a parte l’Egitto, la cui storia risale a migliaia di anni fa, di molto antecedente all’arrivo dei conquistatori/predicatori musulmani (e che tuttora è abitato anche da popolazioni non arabe, come non lo erano gli antichi egizi), non si è mai parlato di stati nel senso esportato da inglesi e francesi dopo la fine della prima guerra mondiale. Le popolazioni arabe riconoscono, come legame fondamentale, la tribù; se si considera quanto accade in stati artificiali, tracciati con un righello sulle mappe, come sono la Libia, la Siria o l’Iraq, vediamo che, abbattuto il dittatore, sono le tribù che riemergono con tutta la loro forza. Sopra la tribù non può esistere uno stato, inevitabilmente dilaniato da vere e proprie guerre tribali (all’interno della stessa “setta” religiosa) oltre che dalla millenaria guerra tra sunniti e sciiti.
La storia insegna che solo un impero, come quello ottomano, o un califfato, è riuscito a mantenere un certo controllo grazie a metodi di governo impensabili in Occidente.
Se poi si volge lo sguardo al Maghreb, che, non a caso, in arabo significa luogo del tramonto, troviamo una realtà molto simile, ad eccezione del Marocco dove il re, grazie alla sua riconosciuta discendenza diretta da Maometto, ha poteri al tempo stesso religiosi (può perfino annullare le fatue) ed amministrativi. Non è certo casuale se le terre dell’Impero Ottomano si fermavano ai confini del Marocco.
Torniamo ora alla realtà palestinese. Dopo una iniziale decisione della Società delle Nazioni, nel 1922, di creare una Jewish National Home su un territorio comprendente le attuali Giordania ed Israele, la Striscia di Gaza e Giudea e Samaria, nel 1923 gli inglesi tirarono fuori dal cilindro quel Regno di Transgiordania che oggi sembra riuscire a sopravvivere, non solo economicamente, grazie ai determinanti aiuti dell’Occidente, e anche, in maniera poco pubblicizzata, di Israele. Ed è compito del re (e della regina) tenere unite le diverse etnie che vivono nel regno (artificiale), con difficoltà sempre crescenti.
Furono gli inglesi che decisero che il territorio destinato allo Stato ebraico, già ridotto del 78% con la sottrazione delle terre ad est del Giordano, dovesse ulteriormente suddividersi in due “stati”, uno dei quali “arabo”, come poi deliberato dalle Nazioni Unite nel 1947. Questa decisione venne bocciata in blocco da tutti i paesi arabi per ragioni diverse, ma complementari. Nelle terre che sono già state conquistate dalla umma, parola araba che significa nazione come la identica parola ebraica, non è possibile, secondo il Corano, che nasca una amministrazione che non sia islamica, come appunto è lo Stato di Israele. Ma, per gli arabi, non era chiaro nemmeno perché avrebbe dovuto nascere un nuovo “stato” su quella che per loro era sempre stata, semplicemente la Siria meridionale.
Auni Bey Abdul-Hadi, un leader arabo locale, aveva già dichiarato alla Commissione Peel nel 1937: “Non esiste alcun paese noto come “Palestina”! ‘Palestina’ è un termine che i sionisti hanno inventato! Il nostro paese è stato per secoli parte della Siria”.
Il rappresentante dell’Alto Comitato Arabo alle Nazioni Unite rilasciò la seguente dichiarazione durante l’Assemblea Generale del maggio 1947: “La Palestina era parte della provincia della Siria; politicamente, gli arabi di Palestina non erano indipendenti, nel senso che non formavano un’entità politica separata”.
Ahmed Shuqeiri, ex presidente dell’OLP, dichiarò poi, nel 1956, davanti al Consiglio di Sicurezza dell’ONU: “È comunemente noto che la Palestina non è altro che la Siria meridionale”.
Zahir Muhsein, in un’ intervista al giornale olandese ‘Trouw’ del 31 marzo 1977, dichiarò: “Il popolo palestinese non esiste. La creazione di uno stato palestinese è soltanto uno strumento per la continuazione della nostra lotta contro lo Stato di Israele per la nostra “UNITÀ ARABA”. In realtà oggi non c’è differenza fra giordani, palestinesi, siriani e libanesi. È soltanto per ragioni politiche e tattiche che noi parliamo dell’esistenza del popolo palestinese, dato che l’interesse nazionale arabo richiede che noi presupponiamo l’esistenza di un “popolo palestinese” distinto, che si opponga al Sionismo. Per ragioni tattiche la Giordania, che è uno stato sovrano con confini delimitati, non può avanzare diritti su Haifa e Jaffa, mentre come palestinese io posso senza dubbio rivendicare Haifa, Jaffa, Beer-Sheva e Gerusalemme. Tuttavia, nel momento in cui reclamiamo il nostro diritto su tutta la Palestina, non aspetteremo neanche un minuto a riunire la Palestina e la Giordania”.
Ed ancora Farouk Radoumi, capo diplomatico dell’OLP, nel 1998 chiarì nuovamente il fine ultimo di quell’arma tattica nota come “popolo palestinese”: “Appena lo Stato Palestinese avrà guadagnato un riconoscimento dalla maggior parte delle nazioni del mondo, come ci aspettiamo, la presenza israeliana su terra palestinese diventerà illegale e noi la combatteremo con le armi. La battaglia contro le forze israeliane è un diritto a noi riservato”. (Farouk Radoumi, al giornale dell’AP ‘AL HAYAT AL-JADEEDA’, 15 ottobre l998).
Arafat, che alla sua anima di terrorista affiancava anche una intelligenza politica non comune, aveva, ad un certo punto, iniziato a parlare di Stato Palestinese, ma chissà che cosa aveva in mente. Non dimentichiamo, infatti, che subito dopo la firma degli accordi di Oslo, il 10 maggio 1994, a chi provava a rimproverarlo per tale riconoscimento del nemico sionista rispose: “Questo accordo non lo considero che come l’accordo siglato dal nostro Profeta Maometto con Kureish, e ricordate che il Califfo Omar aveva respinto tale accordo come una tregua disgustosa”. E infatti, nonostante gli impegni sottoscritti, non li fece mai ratificare dall’OLP, e questo dovrebbe aprire gli occhi ai tanti che pensano, nel mondo, di poter imporre dall’alto la soluzione dei ” due stati”.
Non si deve nemmeno dimenticare, ad ulteriore riprova della non esistenza di questo “stato” di Palestina, che la maggior parte dell’odierna popolazione non è nemmeno autoctona, come non lo era lo stesso Arafat (lui stesso egiziano). Lo stesso ministro degli interni di Hamas, Fathi Hammad, alla TV al-Hekma, il 23 marzo 2012, protestando con gli egiziani per il blocco delle forniture di petrolio, diceva loro: “tutti i Palestinesi, a Gaza e in Palestina, possono dimostrare le loro origini arabe, dalla Arabia Saudita, dallo Yemen, o da tutte le altre terre. Noi abbiamo legami di sangue. La mia famiglia è egiziana. Più di trenta famiglie si chiamano al-Masri (Egiziano); metà dei palestinesi sono egiziani, e l’altra metà sono sauditi. Chi è Palestinese? Noi siamo Arabi. Noi siamo musulmani. Noi siamo una parte di voi”.
Questi sono i fatti troppo spesso ignorati dai tanti che, almeno dal 1947, continuano a credere che ciò che vale in Occidente, possa valere anche in Medio Oriente. Se questa divisione in “due stati” non si è ancora realizzata, non è a causa delle colonie ebraiche: forse che gli ebrei che sono tornati, nel 1967, a Hebron o a Gerusalemme, dove avevano vissuto per 3000 anni, fino a quando i conquistatori giordani li avevano cacciati nel 1948, possono essere considerati coloni? La mancanza di una soluzione non è dovuta a questioni di confini: sono state fatte ben 3 offerte che prevedevano la concessione fino al 97% dei territori; e non è nemmeno dovuta al governo di Netanyahu e dei tanti “falchi” del suo governo: forse che non era considerato un terribile falco anche Begin che fece la prima pace firmata tra gli ebrei e gli arabi? No, forse la causa vera di questa terribile impasse, al momento senza via di uscita, è che gli arabi non vogliono uno stato palestinese, piccolo o grande che sia. No, loro vogliono tutta quell’area, dal Giordano al mare, mostrata in tutti i loro simboli, in tutti i loro libri scolastici, in tutte le loro carte geografiche, per unirla alla Umma, la grande nazione musulmana.